Non ho mai pubblicato sul blog interviste che mi riguardassero ma questa è particolare, perché è firmata da un amico ma soprattutto da un giornalista che ha cuore. E testa. E mani, per scrivere.
Lui si chiama Giorgio Terruzzi e l'intervista è uscita sul numero di Ottobre di Gq.
I miei primi 25 anni
Ovvero, come il "bambino paciarotto" di Novi Ligure è diventato un ragazzo di sinistra, poi un grande attore e il Signore di Zelig.
«Quante volte abbiamo parlato dell'effetto scarroccio? Vai con la barca, punti la boa ma la barca si sposta. Scarroccia, appunto. La vita è un po' così. Il problema è tenere diritta la barra, stare attento, osservare cosa combini. Se ce la fai puoi moderarti e cambiare senza perdere il senso, la direzione».
Claudio Bisio sta bene. Sì, sì, il successo, il consenso eccetera eccetera. In realtà sta bene soprattutto per altro. Perché, in qualche strano modo intimo e suo, tratta le proprie contraddizioni con sincerità, le prende in mano e le ostenta, a costo di stare un'ora davanti a due ragazzine per spiegare come mai decide di partecipare al "film di Natale". Lui, che ha appena raccontato i bambini sono di sinistra a teatro.
Una scelta discutibile, senza dubbio. Una decisione che ha appunto discusso con se stesso sino allo sfinimento. Sino a riuscire a discuterla, infatti, mondata da qualsiasi imbarazzo.
Non è stato un bambino di sinistra. "Ero un bambino paciarotto. Trasferito a Milano, a un anno, da Novi Ligure, anzi da Pasturana, una collinetta messa là. Sorella minore di tre anni, Marilena. Una famiglia come tante, senza i soldi o il tempo per pensare al tennis o allo sci nel fine settimana".
Claudio Bisio è stato uno studente di sinistra, quello sì: "Liceo Cremona, scientifico, sezione D. Il più a destra della classe era iscritto allo Federazione giovani comunisti italiani, un pericoloso moderato da mettere al bando. In quinta si trattava di scegliere una facoltà. Tutti che pensavano a Lettere, Scienze politiche, Filosofia. Odiavo i parolai e odiavo me stesso perchè parolaio. Mai smesso, del resto.
Be', un giorno decidemmo di organizzare un'assemblea di classe. Durante questa assemblea tenni il mio discorso da parolaio citando puntualmente la Cina e la Russia, spiegando che per cambiare il mondo sarebbero serviti tecnici, ingegneri, medici e architetti, mica solo filosofi e chiacchere".
Formarono il governo ombra della quinta D, insomma. Con estrazione a sorte della facoltà. "Beccai il ministero dell'Agricoltura e, fedelissimo alla linea, mi iscrissi ad Agraria. Sedici esami fatti, sui trenta previsti. Chimica, statistica, economia del lavoro, matematica… su quelle materie ero ferrato. Su agronomia per niente. Come seminare: chissenefrega. C'erano gli studenti che arrivavano dalla campagna per quella roba lì".
Braccia strappate all'agricoltura, ecco, Uno scarto a tre tappe: "La prima coincide proprio con gli anni del liceo. Andavo in via Colletta a vedere Dario Fo il sabato, la domenica pomeriggio. Stavo lì ad ascoltare quelle affabulazioni con un interesse che a quel tempo non misuravo, che ho misurato poi, direi che continuo a misurare adesso".
Seconda tappa: "Tre o quattro anni dopo, che allora significava un'epoca dopo, un tempo infinito dopo. Quello dei centri sociali. Il nostro era il più sfigato, era in viale Lunigiana. Adesso in quel posto lì c'è un parcheggio. Allora c'erano gli attori argentini della "Comuna Baires". Organizzai un corso di teatro: ero il primo iscritto".
La terza tappa un po' più tardi. Militare, anno 1977. "Al termine del servizio di leva succede che i miei genitori si separano, succede che io entro in uno di quei buchi neri tipici, da tarda adolescenza, da crisi esistenziale. Non sapevo cosa e come fare e intanto facevo. Lasciavo la mia fidanzata di allora, che si chiamava Lory, mollavo l'università, giravo con l'orecchino, le collanine. Mio padre intanto mi guardava con preoccupazione crescente e con l'assoluta certezza di avere un figlio gay. Fu in questa fase che Claudio decise di saltare le vacanze estive e di prepararsi per l'esame di ammissione alla Scuola del Piccolo Teatro. Scelse un monologo tratto da Ricorda con rabbia di Osbourne: "Una poesia da recitare in un linguaggio semi-inventato, stile Fo, e poi, siccome suonicchiavo il pianoforte, anche la prova facoltativa. Cantare. Brano scelto: Vedrai, vedrai. Tenco. Il che adesso fa ridere, ma allora faceva piangere, anche considerando la mia interpretazione. Be', mi presero".
E poi fu Giorgio Gaber
Teatro, la sua passione più profonda, il posto dove si carica e ricarica spendendo energie. Ancora oggi. Anche se la televisione gli ha dato soddisfazioni, popolarità e denaro. Anche se il cinema resta una terra da esplorare meglio, ancora. Dario Fo, come detto, come si nota dall'uso e abuso delle parentesi tonde, quadre e graffe nel discorrere a ruota sempre liberissima. Poi Gaber non solo per il timbro e punteggiatura, una faccenda molto milanese connessa a una ritmica locale ironica e amata. Gaber per quell'attitudine precisa a osservare l'individuo con le sue imprecisioni, a stare nell'universo piccolo per guardare fuori. Per evitare di trattarsi come un (buon) esempio.
"Sono stato ad ascoltare Benigni. Parla di Berlusconi e poi di amore. Perché c'è sempre un nesso personale e autentico che può portarti a Dante passando magari per Calderoli. Questo mi piace e mi interessa. I bambini sono di sinistra era un monologo connesso a un personaggio teatrale, quindi a una persona rappresentata con i propri nodi, con le proprie contraddizioni".
Ci fu un'interrogazione parlamentare dopo il primo maggio, a proposito di quel testo. "E pensare che ci era venuto in mente di scrivere I bambini sono di destra per proporre un effetto straniante, per dare significato minimo a I bambini sono di sinistra. Come dire, insomma, che se dovessimo parlare sul serio dei bambini verrebbe fuori della roba di destra e di sinistra, di centro, di tutto. Niente di cui sappia dire con certezza. comunque. In pubblico, poi...".
Bambini, suoi, due. Alice e Federico. Una moglie, Sandra, che sulla barra del timone offre contributi decisivi. Una fama che non stinge, proprio no, offrendo rigore e benzina. Bisio? Un gran motore con qualche vuoto di potenza dentro cui sta la sua ombra, una riservatezza accanita, un sistema difensivo che funziona come il resto: "I figli qualche volta sono una preoccupazione. Una preoccupazione tutta mia. Perché mi diverto più oggi di tanti anni fa. Per i miei cinquant'anni mi sono fatto regalare una batteria, provo a imparare, lo faccio con entusiasmo".
Scia da pochi anni. "Ho anche imparato a giocare a tennis poco tempo fa, magari sfruttando le occasioni che offre il mio lavoro, perché mi è rimasta una radice a metà tra la Liguria e il Piemonte: se una cosa è gratis ed è bella, benissimo. Alice e Federico hanno già fatto il parapendio. No, dico, una roba così a dieci anni... Mi chiedo: e poi? Quando ne avranno ventuno? Ecco, Sono fortunato e lo so bene. Ma dei miei anni giovanili conservo molte cose; il cortile per giocare, le utopie per ricordare ciò che desideravo e desidero ancora, pur dentro a un compromesso, a un cambiamento. Mi domando se sarà lo stesso per loro, e come sarà".
Ma questo riguarda molti genitori. "Credo di sì. Ma riguarda anche una visione del futuro realisticamente preoccupante. Quindi non ne faccio un dramma. Tratto, faccio del mio meglio, vedrò di esserci per come sono".
Ecco, come promesso, in anteprima il monologo che reciterò questa sera a Zelig:
L'ho fatta. Non una maratona qualsiasi. No. La stramilano. La prima. 1971. Me lo sconsigliavano tutti: "Non hai il fisico", dicevano. "Conta la volontà", rispondevo. Ricordo la partenza. Ero il numero 610. Una sensazione stupenda. Uomini, donne, bambini che nemmeno si conoscevano... tutti insieme, uniti per una marcia non competitiva. "Non importa quando arrivi, basta arrivare", ci ripetevamo l'un l'altro.
Eravamo in 4508. Quattromilacinquecentosette scattarono alla partenza come cani inseguiti da una lepre. "Allora volete la guerra" pensai, e mi misi al loro inseguimento. Corsi, spinsi, calpestai. Al quarto chilometro ero già nono. Davanti a me c’erano soolo due del Kenia, un marocchino, tre senegalesi. E due di Bergamo. Ma potevo considerarmi terzo, visto che gli africani correvano solo perché pensavano di essere inseguiti dai due di Bergamo.
Non ero messo male. Fu il rifornimento a fregarmi. Mi diedero un limone, dei sali minerali e dell’aceto. Quando io avevo ordinato pizzoccheri in salsa di noci, brasato, frutta, amaro, dolce, caffè e un tavolimo all'ombra. Litigai con Il maître (che si faceva chiamare 'comissario di corsa') fu irremovibile. Ripresi a correre. "Non hai il fisico". "Sei uno zero!". Queste parole mi risuonavano in testa quasi a scandire il ritmo della corsa.
Mi guardai intorno. Nessuno ce l'aveva. ‘Sto fisico. Gli atleti, quelli veri, magri e muscolosi erano scattati avanti, a combattere la loro battaglia. Di fianco a me erano rimaste solo pance, grasso, sudore. Non bello a vedersi. E difatti chiusi gli occhi. E corsi, corsi, corsi. Mi fermò una voce fredda che mi diceva: "Niente da dichiarare?". “Si!” Stavo già per rispondere: "Sì, è stata dura, ma ce l'ho fatta anch’io..." quando aggiunse: "Favorisca il passaporto". Era un doganiere svizzero. “Favorisca il passaporto, vossia”... della Svizzera del sud. “Senti, fai poco lo spiritoso e guardati: Sei Uno Zero!” Si sfiorò l’incidente diplomatico.
Ecco. Se alla prossima edizione della Stramilano vedrete qualcuno dalle parti di viale Tibaldi seduto a un tavolino all'ombra che, mangiando pizzoccheri in salsa di noci, (brasato, frutta amaro dolce caffè e uno sgroppino molta vodka e poco, anzi pochissimo limone) vi grida: "Non hai il fisico. Sei uno zero"... quello, sono io.