Viaggi e Sapori
di Laura Bolgeri
"Porto in scena le mie fantasie di bimbo, nate nella cucina della nonna”
Pasturana e Novi Ligure sono i paesi dei miei nonni materni e dei miei genitori, dove abitano ancora cugini e parenti, e c'è la tomba di famiglia. A quelle dolci colline sono legati ricordi, letture, sapori e odori dell'infanzia. Se ripenso alle mie vacanze da scuola, quando avevo sei o sette anni, mi rivedo nella casa dei nonni, in un angolo della cucina, a leggere “Topolino”. In primo piano troneggia nonna Maria, con la sua “torta pasqualina”, che profuma tutta la stanza. Era una sua specialità, fatta di sfoglie sottilissime, farcita di spinaci ed erbette, o di carciofi, e insaporita da un formaggio dal nome strano, la prescinseua. Il segreto di nonna Maria perché la torta gonfiasse e mantenesse i 33 strati della tradizione, come gli anni di Cristo, stava in un trucco: prima di metterla in forno, prendeva una cannuccia da bibita e soffiava piano tra uno strato e l'altro. Ero incantato dalla magia di quell'operazione e anche stupito che le uova, versate crude nelle fossette scavate nella pasta morbida, si trovassero poi sode, quando si tagliava la torta a fette.
Anche se Pasturana è in Piemonte, la cucina della nonna era perfettamente ligure. A Pasqua, preparava altri piatti della tradizione: tra i miei preferiti c'era la “cima”. Era necessaria una lunga preparazione, un continuo rimestare la carne di vitello macinata, le animelle, la mollica di pane bagnata nel latte, i piselli sgranati e lessati, le uova, il lardo, il Parmigiano grattugiato e non so quali altri ingredienti, mentre io, con il mio gior-nalino in mano, stavo a guardare. Si cucinava ancora su una grande cucina economica a legna, con i cerchi di ghisa, un grande forno e un tubo che riscaldava tutta la stanza. Sono immagini e ricordi che, insieme alle letture di quegli anni, fanno parte del mio bagaglio infantile. Non a caso, poi, quando ho scritto “Quella vacca di nonna Papera”, mi è tornato in mente quel mondo e ho ripescato nelle mie fantasie di allora. Il libro, pubblicato nel 1993, era la storia paradossale di una delle mucche di nonna Papera: in campagna, dalle mie parti, le mucche si chiamano vacche, e non si deve avere pudore a usare una parola che sembra dispregiativa. Alla nonna Papera del libro, che si chiama Guendalina, facevo domande vagamente demenziali o surreali, forse comiche. Mi chiedevo come mai in quel mondo antropomorfo di Walt Disney, dove ci sono paperotti e topolini, ci fossero anche animali veri. Mi domandavo anche a che titolo Guendalina, raffigurata come una papera, avesse nella stalla una mucca e desse da mangiare alle galline. E come era possibile che Clarabella, anche lei una mucca, fosse fidanzata con Orazio, un cavallo? Inoltre, come mai nonna Papera cucinava il tacchino per gli ospiti e i nipoti? Era come se la mia nonna, quella vera, avesse cucinato un timballo di mio cugino. O se Minnie avesse dato da mangiare criceti arrostiti ai suoi nipotini.
Queste battute sono evidentemente ispirate dalle mie fantasie di bambino, nate nella cucina della nonna. Altri termini legati al cibo e alla gastronomia ritornano spontanei nei miei monologhi, ad esempio quando cito le “penne all'arrabbiata della musica”, alludendo alle canzoni taglienti di Vasco Rossi. Oppure, nel titolo del mio album musicale “Paté d'animo” (invece di “patema”), in riferimento alla fatica che mi è costata quel lavoro. In uno sketch, poi, ho immaginato di glassare ventimila piccoli panettoni con i colori della squadra che avrebbe vinto il campionato, per venderli ai tifosi.
L'utilizzo di termini culinari nella satira deriva dal fatto che mangiare, insieme ad altre poche cose come l'eros o il respiro, è un momento fondamentale della vita. I primi gesti del neonato, infatti, sono respirare, succhiare il seno materno, mangiare. Quando sono nati i miei figli, qualche anno fa, avrei voluto fuggire da Milano per andare a vivere in campagna, in Toscana, tra gli ulivi e gli animali. Purtoppo, però, non posso ancora concedermelo, dato il mio lavoro. Sarà il mio buon ritiro in futuro. Nel frattempo, ho comprato un piccolo fienile, l'ho ristrutturato e ho piantato gli ulivi in un terreno che era abbandonato da tempo. Quest'anno ho prodotto il primo olio con le mie olive, spremute a freddo. Con gli amici, per festeggiare, abbiamo mangiato la fettunta, la fetta di pane unta con l'olio appena franto. Ha un sapore che pizzica sulla lingua, tanto è intenso.
Mia moglie, che è di Bolzano, ogni tanto mi propone qualche piatto altoatesino, come gli spätzle. L'impasto, a base di farina e spinaci, è setacciato con una specie di schiacciapatate a buchi larghi. Ne escono dei vermicelli verdi, che si fanno bollire velocemente e si condiscono con dadini di speck, burro e panna. Quando andiamo dai genitori di mia moglie si mangiano anche i knödel, tondi e morbidi. Io, comunque, amo una cucina eclettica e, soprattutto, i sapori nuovi. Dei viaggi che ho fatto negli anni delle mie prime esperienze come attore ricordo altre cucine e indimenticabili paesaggi. Il set di “Mediterraneo”, il film di Gabriele Salvatores che ha vinto l'Oscar nel 1992, era a Kastellorizo, piccola isola greca del Dodecanneso, di fronte alle coste turche: un luogo e un clima meravigliosi. Tra l'altro, i pochi abitanti dell'isola sono diventati subito nostri amici e, insieme al pope, facevano le comparse. Mi alzavo presto, facevo una nuotata in quelle acque limpide, mangiavo yogurt denso con il miele, e poi si cominciava a girare. Lavoravamo fino a sera e poi andavamo a cena in una piccola trattoria chiamata "Meltemi", come il vento che soffia su quelle isole. Si mangiavano squisiti piatti di pesce, brodetti bianchi, ricche insalate e spiedini di carne d'agnello. Se lavorare fosse sempre così piacevole, lavorerei per tutta la vita! Oggi l'isola, allora nota solo ai velisti, è diventata famosa e c'è persino una piazza intitolata a Gabriele Salvatores.