Linus
di Giulio D'Antona
Comedians
CLAUDIO BISIO
«Bravo!», «Vaffanculo!»
Claudio Bisio ha percorso la comicità italiana: dai piccoli locali al battesimo del cabaret televisivo, passando per il cinema e senza mai perdere contatto con il teatro. Fa ridere quando recita, quando improvvisa e quando parla. Per «Comedians» ci siamo incontrati nel camerino di un teatro, a Milano, dove a un certo punto abbiamo litigato sulla stand-up.
Come è cominciata?
Da bambino, andavo al circo a vedere i pagliacci e per un po' ho detto che da grande avrei voluto fare il pagliaccio. Ho letto che c'è un periodo dell'infanzia in cui quando ti chiedono cosa vorresti fare, rispondi la cosa più veritiera. Magari non è così, però ci sono andato vicino.
Quando hai scoperto di far ridere, davvero?
Facevo la scuola del Piccolo, a Milano. Per un saggio abbiamo messo in scena l'Otello ed ero il protagonista: tutto dipinto di nero. Tra l'altro c'era un problema perché per contratto il mestiere del truccatore finisce con l'attaccatura dei capelli, poi inizia quella del parrucchiere. Nel mio caso, già calvo a ventiquattro anni, non sapevano quando avvicendarsi. A un certo punto arrivava la scena in cui strangolavo Desdemona: estremamente drammatica. Mi chinavo in avanti e in quella posizione il pubblico vedeva il sopra della mia testa e, non so dire perché, si metteva a ridere. Abbiamo fatto tre repliche: alla prima ho sofferto, alla seconda di più, alla terza mi sono vendicato. Mi sono fatto dipingere sulla testa un punto interrogativo bianco, visibile solo quando mi chinavo. Quella volta la risata è stata piena, consapevole. Forse è stato lì che sono diventato un comico.
C'è un detto americano: «Non diventare mai troppo importante per usare gli amici». Se penso a te penso a un gruppo, quello di Comedians e di Kamikazen. Quanto è importante lavorare con gli amici?
Fondamentale. Io ho due grandi famiglie: quella, che poi è la compagnia dell'Elfo, e quella dello Zelig di viale Monza. Avevo una doppia anima: di giorno recitavo Shakespeare e la notte mi esibivo nei locali.
Allo Zelig?
Prima al Derby. La sera che ha chiuso ero lì. Sul palco c'era Gianni Palladino, quando la polizia ha fatto irruzione e ha cominciato ad arrestare gente. Giravano un sacco di tipi loschi, a quei tempi. Gianni, sentendo quello che succedeva, ha pensato gli stessimo facendo uno scherzo ed è andato avanti come se niente fosse, anzi ha cominciato a fare battute sulla polizia. Solo che in poco tempo hanno portato via tutti, pure i camerieri, e lui è rimasto da solo.
Era così dura?
Il clima, anche tra i comici, era mors tua, vita mea. Se girava voce che qualcuno avesse rubato una battuta, esplodevano delle risse in quinta. I comici uscivano con gli occhi neri, i nasi sanguinanti. Era un vero locale notturno, da rebongisti: gli spettacoli iniziavano alle undici e andavano avanti fino alle due. Non era mica facile far ridere quella gente lì. E poi contavano tantissimo i turni: in settimana bisognava esibirsi all'apertura, perché in chiusura non c'era nessuno, ma nei weekend era meglio chiudere. E anche quello era motivo di malumori.
E dopo il Derby?
Lo Zelig, che abbiamo fondato il 15 maggio del 1986. È stato un passaggio di testimone, molti di noi si sono trasferiti direttamente. Lì lavoravamo con più armonia, con più tranquillità, veramente tra amici. C'era del cameratismo, ci si scambiava pareri e idee, si interagiva, ci si mescolava.
Come siete arrivati a Comedians?
Io lavoravo in coppia con Antonio Catania. Facevamo Nemico di classe di Nigel Williams con Paolo Rossi: un testo molto schierato, che avevamo reso in una versione più comica. In tournée per passare il tempo leggevamo, cercavamo spunti, pensavamo al futuro. Un giorno, a Torino, abbiamo preso un libro che conteneva 101 trame di pièce. Dentro, Paolino ha trovato il soggetto di Comedians di Trevor Griffiths: una specie di trotskista inglese. Il testo era una presa di posizione contro il tradimento della purezza di intenti, la comicità fine a se stessa. Il monologo finale del protagonista, che in quel caso era Paolo, era molto serio, marziale, si faceva con la biacca in faccia... Paolo lo ha reso una delle cose più comiche che avessimo mai sentito e questo ci ha premiati.
Tra il teatro e i locali, una delle differenze sta nel rapporto col pubblico, che in assenza della quarta parete può essere brutale, nella stand-up...
La stand-up è una mania di adesso. Quando ho cominciato a fare questo mestiere c'era Dario Fo che portava in scena Morte accidentale di un anarchico. Prima dello spettacolo, faceva un prologo sulla contemporaneità, che all'inizio durava sei minuti, poi è arrivato a durare mezz'ora. Ecco, quella per me era già stand-up e lui non la definiva.
Tu lo facevi con Aspettando godo che ha dentro il famoso pezzo sui personaggi Disney... Vi ponevate il problema?
Teorizzavamo molto. Io vivevo una dicotomia che mi piaceva: tra il teatro e i palchi dei locali. Amavo la quarta parete e anche improvvisare, ma cercavo di tenere le due cose separate. Il mio modello teatrale era Fo, ma quello televisivo era John Belushi. C'era un personaggio che facevo allo Zelig, per fortuna misconosciuto, ispirato al suo samurai del Saturday Night Live: un karateka. Mi presentavo i kimono, a piedi scalzi, e giravo per i tavoli, tra la gente che mangiava e beveva, gridando frasi incomprensibili, facendo versi. C'erano volte che, col pubblico giusto e la giusta dose di whiskey, potevo stare anche un quarto d'ora senza dire niente di intellegibile, altre che in cinque minuti la situazione degenerava.
Insomma, nel cabaret improvvisavi...
Totalmente. Paolo Rossi ha avuto l'intuizione giusta: mescolare le tecniche teatrali con l'improvvisazione. Al Derby mi ricordo che ha portato un testo di Stefano Benni, e considera che lì non c'era il pubblico intellettuale che poteva esserci allo Zelig. Riusciva a trasporre sui palchi del cabaret testi più “intelligenti” e allo stesso modo mi ha insegnato a portare in teatro la leggerezza dei locali, l'interazione col pubblico, che uso ancora molto. Lo apprezzavo per questo, anche se nella teoria eravamo distanti. Non so se nella tradizione americana c'è la stessa permeabilità.
Mi viene in mente Andy Kauffman, che ha trasformato la stand-up in arte performativa e viceversa, ma in Italia c'è indubbiamente una tradizione comica più stratificata...
Scrivilo! Non lasciare fuori questa ammissione!
Dopo lo Zelig, come è stato portare il cabaret in tv?
È stato un caso, innanzitutto. Nel 1996, al decennale dell'apertura del locale, abbiamo fatto una serata per festeggiare con gli amici e abbiamo filmato tutto. A qualcuno è venuta l'idea di mandare le riprese a Italia1. Sono piaciute e un anno dopo è cominciato Facciamo cabaret. Era cabaret filmato, né più né meno. Poi il programma ha preso piede, sono arrivati nuovi comici, è diventato Zelig, si è spostato nel tendone e poi agli Arcimboldi. Non credo che abbia mai cambiato direzione, rispetto allo spirito dei primi tempi, forse un po' di effetto scarroccio. Sai cos'è?
No.
A vela è quando col timone punti in una direzione ma le correnti ti fanno scarrocciare di lato. L'obbiettivo non cambia, ma il punto di arrivo si sposta. Non abbiamo mai virato, abbiamo sempre fatto quello che sapevamo fare. Non guardavamo nemmeno le lucine delle camere, non avevamo gobbi, non era veramente televisione. Anche il rapporto col pubblico era quasi conflittuale, di reciproca presa in giro, come quello che animava le serate nei locali. Se qualcuno mi urlava «Bravo!», io rispondevo «Vaffanculo!», che è una cosa che faccio sempre. Anche nella vita, per strada. I miei colleghi lo sapevano, gridavano «Bravo!» e io «Stronzo!», poi scoprivo che erano stati loro. Il clima è stato sempre lo stesso, fino alla fine.
In che rapporti siete rimasti col locale?
Siamo sempre andati a provare i pezzi alla domenica sera senza telecamere. Sbagliando, correggendoci, qualcuno arrivava col foglietto, una sorta di prove a perdere. Ogni tanto lo faccio ancora adesso.
Vedi? Come la stand-up, si va agli open mic a provare. Siete arrivati alla stessa conclusione...
Senza copiare dagli americani!
E coi testi drammatici, come fai?
Li tradisco. Trovo che sia ottimo avere un testo corposo alle spalle, ma è anche meglio ricamarci, uscire dal seminato. Prendi Father and Son, uno spettacolo tratto da Gli sdraiati di Michele Serra che porto in giro da qualche anno, mi piace “sporcarlo”, in un certo senso, dell'esperienza che mi porto dietro dal cabaret, da tutto quello che ti ho raccontato.
Che cosa faresti se ti dicessero che non fai più ridere?
Mi ammazzerei.
(Risate)