Smessi i panni dello scrittore di lepide storie gialle e no, vorrei, per una volta, indossare quelli del critico. Di un critico molto particolare visto che vorrei recensire il mio spettacolo Le nuove, mirabolanti avventure di Walter Ego in scena al Porta Romana fino al 14 marzo.
Lo spettacolo c’è. È nuovo. È strano. Non è codificabile. Chi si aspetta delle risposte non venga a vederlo. Non dà risposte. Brevemente la storia: un giovane pony express del futuro (siamo nel 1999) con uno stratagemma è inviato nello spazio da un vecchio saggio un po' burlone (che sta a metà tra Mago Merlino e il pazzo della «Leggenda del Re Pescatore») per cercare la santa energia che ci preserverà dagli strali della dea Malasorte, figlia del dio Mala e della dea Sorte, comunemente detta Sfigamarcia. E lui, il pony Walter Ego, come un templare alla ricerca del sacro graal, parte. Ma il suo è un viaggio metafisico, anzi patafisico. Salta subito in un universo parallelo al nostro dove si parla e si vive all’incontrario. Dove Caino non è un carnefice, ma una vittima. Dove la biblica parabola del figliol prodigo, che già ribaltava il comune sentire, viene ulteriormente ribaltata. E quindi il figlio cattivo si merita le maledizioni e quello buono tutta l’eredità materiale e spirituale del padre. Dove incontra un indigeno vestito di pelle di animale che si muove come gli scimmioni di 2001: Odissea nello spazio e si esprime con suoni gutturali, ma che in realtà è molto colto. Sta soltanto abolendo tutto; il linguaggio, i mezzi di locomozione, la civiltà insomma, per giungere illa glaciazione che per lui è la perfezione totale: tutto immobile, tutto freddo.
E forse è proprio questa scena, che in realtà appare come uno sketch, a dare il senso allo spettacolo. L'apparire non conta nulla, tant'è vero che questo apparente scimmione ignorante è l’esatto contrario. È un universo in cui si tende al nulla, al ghiaccio, all'estinzione della razza umana. Però in questo universo che sembra lasciare poche speranze e e spazio per un recupero del non detto, vedi un postino interstellare che consegna lettere mai scritte, ma solo pensate. Ne consegna una anche a Walter. Una lettera che gli ricorda un fatto brutto dell'infanzia e fa sì che questo stupidotto tutto «casa, motocicletta e strada» assuma un briciolo di coscienza che lo porterà a prendere la prima decisione della sua vita: Walter rifiuta di ritirare la sacra energia che avrebbe debellato la sfortuna per sempre.
Perché? Ma come, vi immaginate un universo senza sfortuna, cosa sarebbe?... Scomparirebbero le pagine più belle della letteratura. L'Odissea si ridurrebbe a poche righe: «Ulisse tornò a casa in un giorno col vento in poppa»... E allora è meglio continuare a giocare, a viaggiare, a vivere, lasciando in nome del libero arbitrio a noi la possibilità di fare del bene o del male, e alla sorte di essere positiva o negativa.
E la gente va a casa con le mascelle stanche dal ridere. Perché si ride, e molto. Ma con un senso di vuoto. Qualcuno è sconcertato, vorrebbe dallo spettacolo più chiarezza, più indicazioni. Il momento politico lo richiede. Ma gli autori sono crudeli e non danno appigli né per capire, né per intervenire. «Sono cavoli vostri. O nostri» sembrano dire. Belle le musiche (eseguite dal vivo da un vivace Marcello Colò), le scene, i costumi e le luci. Ottima la regia di Paola Galassi che riesce a dare unitarietà e continuità a materiali che tali non sono. Bebo Storti dà un pizzico di follia al vecchio saggio ed è irresistibile nel tratteggiare un Caino depresso che parla in bergamasco. Il Walter Ego di Claudio Bisio sarà infine ricordato come l'Arlecchino del Duemila.
Alla prima numerose chiamate e calorosi applausi. Unico appunto, la mancanza del bar nel teatro che costringe il pubblico durante l'intervallo ad attraversare la strada, con tutti i rischi che ciò comporta, per affrontare un biblico esodo verso il bar di fronte (dove, peraltro, per dovere di cronaca, fanno un ottimo caffè).