“Claudio Bisio è un attore che definire calvo è riduttivo”. La geniale battuta è di Rocco Tanica e sta scritta nel risvolto di copertina del libro intitolato “Quella vacca di Nonna Papera” uscito per i tipi della Baldini & Castoldi nel 1993. E’ un testo che Bisio stesso, essendone l’autore, definirebbe probabilmente sacro e fondamentale per la storia della comicità italiana. Noi ci limitiamo a dire che contiene i monologhi dello spettacolo “Aspettando godo”. Proprio quelli della cassetta allegata, registrati nella sede del Teatro Carcano di Milano per la regia teatrale di Paola Galassi e televisiva di Rossano Angioletti. Autori, con Bisio, Sergio Conforti e Edoardo Erba. Musiche di Sergio Conforti, che poi sarebbe il Rocco Tanica di cui sopra, già pianolista del gruppo Elio e le storie tese.
Insomma, avrete capito il giro, ma per chiarirvelo ancora meglio, diciamo che i monologhi recitati e registrati sul palcoscenico del Carcano, occupato dalla lussuosa scenografia costituita da un televisore, un mappamondo di plastica semisgonfio e un salvagente a forma di palma, sono stati tutti provati per la prima volta su un altro e più piccolo palcoscenico: quello dello Zelig, locale milanese attorno al quale si riuniscono, sotto la direzione artistica di Gino e Michele, tutti i cabarettisti e i comici (più qualche musicista, come Elio e le storie tese) che fanno gruppo (ma non tendenza) ormai da dieci anni. Questo per cercare di definire l'ambiente, il clima e, come si dice, il background artistico di Claudio Bisio.
Ma ancora non sappiamo chi sia davvero il Bisio, anche se il prologo al suo secondo libro, intitolato "Prima comunella, poi comunismo" (editore Baldini & Castoldi, 1996) recita così: "Sono nato in una comune dove praticavo l'amore libero, trebbiavo canapa indiana tutto il giorno e vivevo nudo in un trionfo di armonia universale. A quindici anni sono scappato di comune. Mi hanno ritrovato dopo due mesi. Allo sbando. In un condomino con l'ascensore. Una famiglia col cane. Una cameretta tutta mia, rivestito, pettinato...".
Naturalmente è tutto un seguito di falsità. Perciò, chi sia veramente Claudio Bisio abbiamo deciso di chiederlo a Bisio stesso personalmente, facendogli molte circostanziate domande.
Dunque, Bisio, ci dica: lei dove nasce e, soprattutto perché?
Guardi, io veramente nasco a Novi Ligure, località che, nonostante il nome, è in provincia di Alessandria. E sono nato lì perché tutti i miei erano di lì. Ci tengo a dirlo.
Dunque lei nasce piemontese. E quando è avvenuto, nella sua vita, l’incontro decisivo con il Milan, che è notoriamente la sua squadra del cuore?
Il Milan l'ho incontrato a Milano, città nella quale vivo da 39 anni, cioè da pochi mesi dopo la nascita. Del resto, anche papà era milanista e per me si poneva il problema se rinnegare il padre, come ho fatto per altri versi, o affermarlo. Ho scelto di affermarlo.
E come giustifica il fatto che quasi tutti i comici (in testa Paolo Rossi) e gli autori amici suoi che circolano attorno allo Zelig siano interisti e solo lei e Diego Abatantuono milanisti?
Perché gli altri credono, chissà perché, che Moratti sia meglio di Berlusconi.
E invece?
Invece sono uno peggio dell'altro.
Chiarito questo importante punto della sua biografia calcistica, ritorniamo alle origini familiari. Che cosa faceva suo padre per vivere?
Mio padre era rappresentante di commercio: girava per la provincia vendendo aromi naturali, essenze per la produzione di amari o profumi.
E quale è stato il profumo della sua infanzia?
Odore di vaniglia.
Molto bello. Suo padre faceva un mestiere romantico, che lei però non ha voluto seguire.
L’ho capito anni dopo. Per un certo periodo ho anche provato a seguire mio padre nei suoi giri. Ero alla fine del liceo e le mie intenzioni erano così serie che ho fatto anche una scelta consona per la facoltà universitaria: mi sono iscritto ad agraria. Veramente sognavo di diventare ministro dell'Agricoltura nel primo governo delle sinistre. Erano gli anni '75-76 e, benché fossi extraparlamentare, allora credevamo nella prospettiva di conquistare il 51 %. Anche noi di Avanguardia Operaia avremmo dato il nostro 4 % per andare al potere. E, in vista del risultato vittorioso, volevamo essere preparati. Avremmo voluto tutti quanti studiare filosofia o, al massimo, lettere. Però, dovendo coprire tutte le competenze ministeriali, ci siamo divisi a sorte le diverse facoltà universitarie. Noi della quinta D formammo perciò un governo ombra, assegnandoci le diverse competenze. A me toccarono le materie scientifiche e tra queste scelsi la facoltà di agraria.
Dunque la sua non era una scelta ecologista.
Assolutamente no: odio la campagna. La scelta però piacque molto a mio padre, e la portai avanti per parecchio tempo. Tanto che ho fatto una dozzina di esami, prima di decidermi a cambiare completamente vita.
Suo padre sarà stato orgoglioso di lei, almeno per quel periodo.
Per pochi mesi posso dire che era orgoglioso di me. Il suo infatti era anche un lavoro di consulenza e, benché non avesse studiato, ne sapeva più lui, su certe piante aromatiche, di tanti laureati. Comunque era contento di poter esibire le mie conoscenze, quando mi portava con sé nei suoi viaggi di lavoro.
E perché poi decise di cambiare completamente vita?
Decisi di abbandonare tutto dopo il servizio militare. Ma proprio tutto: la casa, la famiglia, la tesi e perfino la fidanzata.
Abbandonarli per che cosa?
Per fare teatro off, ma off off. Quello che allora chiamavamo teatro vivente, prendendo in prestito la definizione dal Living. Ma poi, secondo la mia natura che è doppia, mi sono anche iscritto alla scuola del Piccolo Teatro della città di Milano.
In che senso dice di essere doppio?
Voglio dire che ho una doppia anima: da un lato anarchica, dall'altro che tende alla ricerca della tecnica, all'istituzione.
Già, allo stesso modo in cui era extraparlamentare e sognava di diventare ministro…
Così ho passato tre anni al Piccolo, a studiare. Tre anni intensi e duri, che mi sono serviti per rinnegarli subito dopo. Infatti ho recitato nello spettacolo "Nemico di classe" (di Nigel Williams), che era proprio il contrario di ogni accademicità. Il più gran complimento ce lo fece, forse senza volerlo, Ivo Chiesa (direttore dello Stabile di Genova), che si congratulò col regista Elio De Capitani perché era riuscito a far recitare dei tipi come noi, che sicuramente lui credeva tirati su dalla strada o chissà da dove.
Magari vi aveva presi per una specie di cooperativa di attori carcerati.
Possibile. Per noi fu comunque una grande soddisfazione, benché fossimo quasi tutti diplomati.
E quando ha deciso che recitare era il suo mestiere definitivo?
Già quella volta lì. Sapendo che non eravamo affatto attori naïf, ma vedendo che eravamo riusciti a ingannare uno come Ivo Chiesa, ho capito che potevo recitare per vivere.
Da allora ha deciso che poteva considerarsi un attore fatto e finito?
No. Quello, fino in fondo non lo credo neanche adesso.
Beh, certo che ora, tra libri (e lei ne ha scritto già due), dischi, cinema, teatro, tv, dire attore vuoi dire un po' tutto. Ma d'altra parte che mestiere potrebbe fare adesso, se non facesse l'attore?
Guardi, non so, ma se facessi un altro mestiere, sarebbe sempre qualcosa di non manuale. Non ho proprio nessuna manualità. Ho smesso di suonare il pianoforte, potrei ricominciare. Oppure potrei cantare, scrivere libri veri, raccontare delle vere storie.
E portare dei capelli finti? Voglio dire: è mai stato costretto a mettere la parrucca per recitare in qualche ruolo importante?
La parrucca? Sì, me l'hanno fatta mettere. E' stata Franca Nuti, che era mia insegnante alla scuola del Piccolo. Mi diceva: sì, tu hai il carisma, sei un protagonista potenziale, ma certo non così...E mi fece mettere la parrucca per recitare il ruolo di protagonista in "Ma non è una cosa seria", di Pirandello. Però, quando mi vedevano con la parrucca, tutti ridevano. E forse lì ho capito che ero un attore comico.
E poi non ha più messo la parrucca...
Invece no. La parrucca l'avevo anche, nella prima parte dello spettacolo "Tersa Repubblica", spettacolo di cui è stata fatta un'altra video cassetta e che è contenuto nel libro "Prima comunella, poi comunismo". Lì, nella prima parte, rappresentavo un personaggio... una specie di Berlusconi.
Berlusconi con i capelli? Da giovane, magari...
No. Volevo dire il personaggio di uno che aveva capito che l'apparire è più importante dell'essere. Poi, a metà spettacolo, la parrucca me la toglievo. Mi toglievo anche la giacca e restavo in maniche di camicia.
La cosa più intrigante in questa vicenda è il titolo "Prima comunella, poi comunismo". Delle due cose, quale le piace di più, la comunella o il comunismo?
Beh, guardi, secondo me non c'è comunella senza comunismo. Ma forse non viceversa, ci può essere anche comunismo senza comunella. Chissà.
Ma lei che cosa preferisce?
La completezza delle due cose, cioè entrambe, tutto.
In "Aspettando godo", a un certo punto lei dice, anzi il personaggio monologante dice di essere sempre stato ritardatario, tanto che il comunismo comincia a piacergli proprio ora che non c'è più. E' la verità?
Quella battuta fa parte dello spettacolo che è contenuto nella cassetta dell'Unità, sì, ma poi ci sono molti riferimenti anche nell'altro spettacolo, quello contenuto nella seconda cassetta Polygram. I due spettacoli sono uno conseguenza dell'altro e sono entrambi chiaroveggenti, secondo me. Il primo è stato scritto nel 1990, prima di Tangentopoli, prima di Di Pietro e il resto. Quella frase si trovava nel monologo intitolato proprio "Anni Novanta", in cui io, insomma il personaggio, dice che gli anni 80 li ha capiti solo alla fine, con tutte le loro bustarelle, corruzioni, tangenti, etc. E quando finalmente li ha capiti, è già arrivata l’ondata del moralismo, l'ansia di pulizia.
Speriamo che sia così. A lei allora piacciono questi anni 90?
Diciamo che sono partiti decisamente meglio del decennio precedente. Adesso stanno ormai quasi finendo, però. Nel secondo spettacolo di cui parlavo, infatti, si compie quasi il percorso alla rovescia, il personaggio fa il processo all'incontrario.
Ora le faccio una domandina facile facile. Qual è la cosa più bella che le hanno regalato questi anni Novanta?
Effettivamente è facile: mia figlia.
Quindi sono anni felici per lei?
Sì, sicuramente sono anni che mi sono piaciuti più degli altri. Del resto, pensi che sono iniziati con la lavorazione del film di Gabriele Salvatores "Mediterraneo"...
Con un bell'Oscar guadagnato. Complimenti. Ce l'ha la statuetta a casa, tra i suoi feticci?
Sì, di plastica. Me l'hanno regalata gli amici.
Adesso però le faccio una domanda polemica. Voi attori, soprattutto voi comici, tra dischi, film, libri, televisione e chissà che cos'altro, ormai più che artisti siete diventati delle imprese, delle multinazionali, delle holding.
La risposta è una sola, monosillabica: sì.
Ci spieghi meglio. Siete tutti ricchi sfondati?
Chi più, chi meno. Ormai, è vero, si riesce a riutilizzare tutto. I mezzi non finiscono mai. Del resto anche questa de l'Unità è un'occasione per percepire diritti SIAE. Poi, coi canali cablati, i satelliti e tutto quello che verrà, i ritorni saranno infiniti. Una volta per gli attori c'era solo il teatro e poi il cinema, a essere fortunati. Ora, moltiplicandosi i mezzi, si moltiplica tutto. D'altra parte questo significa che anche noi comici saremo tra i più grandi contributori per l'Europa.
A questo proprio non ci avevo pensato. Mi congratulo per il suo europeismo.
Certo, perché io sono uno che paga le tasse. E forse ora i comici fanno parte di quel famoso ceto medio-alto che dovrà dare di più.
Ma forse è meglio non dirlo, perché rischiate di diventare antipatici. Passiamo alle domande precise. Quanti dischi ha inciso?
Il primo si intitolava "Rapput". Il secondo lp si chiamava "Paté d'animo".
E quanti film ha girato fino ad oggi?
Veramente non li ho mai contati, ma a occhio e croce direi una quindicina.
Una quindicina, di cui fa parte anche l'Oscar di "Mediterraneo", che conta il doppio. E di spettacoli televisivi quanti ne ha fatti?
Anche qui, non ho tenuto il numero esatto.
Citiamo quelli che le sono piaciuti di più.
Allora diciamo il telefilm comico "Zanzibar", di cui ero anche tra gli autori. E "Cielito Lindo" per Raitre. Poi ci sono state molte partecipazioni a spettacoli condotti da altri.
Una cosa che mi ha sempre incuriosito molto è sapere che cosa diverte voi comici, che passate per essere serissimi nella vita. E qualche volte siete addirittura tragici. Lei di che cosa ride?
Che cosa mi fa ridere? E' difficile da dire. Certo mi piace soprattutto far ridere: noi comici abbiamo sempre l'ossessione di non riuscire a far ridere. Però, pensandoci, mi fanno ridere comunque le cose vere.
E cioè, per esempio, le classiche cadute, gli scivoloni?
Ah, sì. Quello è proprio il classico. Vedere una persona che finisce a terra, fa sempre ridere. E' il meccanismo elementare della comicità. C'è sempre una certa cattiveria nella risata. Uno si fa male e ti viene da ridere. Poi magari ti preoccupi, ma lì per lì ti scappa da ridere. Se uno fa finta di scivolare, non ti fa ridere, a meno che non sia così bravo da far sembrare che è scivolato sul serio.
Le faccio un esempio: tra Totò e Woody Allen chi la fa più ridere?
Mi fanno ridere gli sprazzi di verità di entrambi. Le famose scene a macchina fissa di Totò, sulle quali circolano tante leggende. Quella, per esempio, del viaggio in treno con l'onorevole Trombetta. Si dice che Totò cambiasse continuamente le battute. Io non ero lì quando girava, ma ci si può credere e mi fanno ridere tantissimo le microverità che si vedono in quelle scene.
E in Woody Allen non trova altrettanta verità?
Non è che mi piacciono solo le cose che mi fanno ridere. Magari in Woody Allen ci sono cose più costruite, più pensate, che mi piacciono molto, anche se non mi fanno ridere. La risata è quella che non decidi, quella che scoppia irrefrenabile. In questo senso, sì, devo dire che mi fa ridere di più Totò.