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Immagine del programma di sala (1)
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«L’uomo rosso», un profondista che sta precipitando nella fossa oceanica, chiuso nella camera iperbarica staccatasi incidentalmente dai forti cavi che la ancoravano alla nave d’appoggio, ora abbandonata all’oblio del buio delle profondità, con un piccolo uomo dentro che cerca di comunicare con la nave appoggio. Un piccolo uomo che chiede informazioni, istruzioni, indicazioni, che chiede il senso di quello che sta avvenendo, mentre la distanza tra la nave appoggio e il nulla aumenta sempre più. E i riferimenti si allontanano. E il nulla si avvicina accompagnato da una strana euforia, forse l’euforia degli abissi, un’euforia che è uno stato dell’essere, che è un paesaggio abitato da mostri marini, disperate leggerezze, frenetici tip-tap e parole. Parole che si susseguono, sovrapponendosi, perdendo il senso, il filo, il fine. E si accumulano in angoli polverosi di stanze senza ascoltatori, vuote, stancamente. Stanchi. Stanchi di parlare senza essere ascoltati, di trascorrere una vita e consumare una generazione in un continuum oratorio inascoltato, dove le parole diventano solo attimi, e il discorso diventa tempo, e il parlare diventa un modo di trascorrere il tempo, solo il trascorrere del tempo. Come i lunghissimi interventi di qualche anno fa dei parlamentari radicali, quando con l’«ostruzionismo» cercavano di non permettere l’approvazione di certe leggi, impegnandosi in lunghissime maratome oratorie di ore e ore. In «Ostruzionismo radicale» il monologare è il susseguirsi di storie slegate, personali, insensate, vere: gli ultimi venti minuti dopo più di cinquanta ore di intervento. Il parlamentare è stressato, affaticato, affamato e assetato, dimentico della legge a cui si sta opponendo, di fronte ai banchi vuoti di un parlamento dove l’unica presenza è presunta: il Presidente, a cui il parlamentare si rivolge. Che forse è Mic a cui si rivolgeva il profondista cercando di parlare con la nave appoggio. Che sono forse entrambi il nostro bisogno di dire. Per affermare di essere.

E se prima era un profondista e poi un parlamentare probabile, ora, adesso, chi è il personaggio che straparla al microfono il suo buffo monologare? Perché è ancora solo? Solo per problemi di costi di produzione? E inoltre: è Bisio stesso? Sono forse gli autori? Ma poi, è proprio qualcuno quello che sta parlando? O sono solo delle visioni, le immagini che vediamo come in un film (ammesso che tutti le vedano allo stesso modo)? E se siamo solo ciò che sembriamo, cioè: se non siamo veramente e appariamo soltanto? E’ forse un film tutto questo che sta accadendo? Sono solo le scene di un copione di un film? E soprattutto: di quale film si tratta? E, in questo caso, chi sarebbe l’operatore? Di sicuro c’è solo che siamo stanchi di servire tazzine di caffè a protagonisti che non le berranno mai. «Favola calda» sono tre storie, tre favole «calde» perché sono scritture teatrali che raccontano il nostro «stato delle cose» di tre anni. Questi tre pezzi sono stati scritti in tre anni diversi, in tre fasi del nostro lavoro teatrale, dall’84 a oggi, raccolti in un unico spettacolo, in un’unica occasione produttiva che crediamo debba acquistare significato non in quanto «prodotto preconfezionato», ma proprio in quanto sintesi spettacolare di quel percorso, dal nostro percorso drammaturgico e interpretativo.

Mentre il disco continua a girare, sui due lati i sue pezzi diversi, uno veloce e l’altro lento, sulle note di una confusione buffa e comica, triste e disperata, di certi anni, di certi uomini, di certe storie, non necessariamente quotidiane e reali, ma senza d’altra parte appartenere esclusivamente al sogno e alla fantasia: una realtà mediata, spiazzante e volutamente sproporzionata, contraddittoria e senza riferimenti.

«… una volta avevo inventato un gioco: volevo scrivere quelle cose che si vedono tra il sonno e la veglia… che si vedono cose che non sono sogni, ma che non sono neanche più pensieri…».

Edoardo Erba, Roberto Traverso, Claudio Bisio

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DUE PAROLE SULLA COSIDDETTA «NUOVA DRAMMATURGIA»

Qualche anno fa qualcuno ha cominciato a dire che il teatro italiano aveva bisogno di una nuova drammaturgia. Di gente che si mettesse a scrivere, insomma. Naturalmente sono d'accordissimo. Ma ogni tanto mi viene il dubbio che chi l'ha detto o scritto non sappia esattamente cosa vuol dire fare lo scrittore di teatro. E ancora meno sappia quanto tempo un giovane scrittore deve impiegare per diventare un buon scrittore di teatro (sempre ammesso che abbia lo stoffa per farlo). Forse qualcuno credeva che bastasse lanciare una parola d ordine per trovare talenti da tutte le parti. E forse questo qualcuno già oggi è deluso per non averne trovati e comincio a pensare che forse non era questione di nuova drammaturgia, per rinnovare il teatro ci voleva una nuova saildiavolocosa. Non so se è mai passato per la testa a questa gente che i giovani che hanno cominciato il difficile percorso della scrittura teatrale vanno seguiti, criticati, incoraggiati, insomma bisogna starci attenti, conoscerli, dialogare con loro, offrirgli occasioni di lavoro. Non fargli da padrini, ma fargli da interlocutori. Aprire con loro un dibattito franco, non provinciale, che badi alla sostanza e non alle etichette.

Ho conosciuto Annibale Piuccello l’anno scorso a Fiesole a un convegno sulla «Nuova Drammaturgia». Oggi che non c’è più tutti parlano di lui, piglia i premi, a Napoli gli hanno intitolato una rassegna a cui ho la soddisfazione di portare «Favola Calda». Ma solo poco più di un anno fa, quando era fra noi, Ruccello combattevo contro tutti, in mezzo a mille difficolta, all’incomprensione, all’indifferenza, alla derisione, ed era incazzato, molto incazzato. Me ne parlava sulla porta dell’albergo con quello straordinario accento così lieve, ma rosso in faccio e con la rabbia negli occhi.

E con lui era incazzato anche Dario D'Ambrosi, un autore sicuramente geniale, che ha dovuto andare in America per poter lavorare. Laggiù l’hanno apprezzato, e fa niente se aveva solo ventisei anni e parlava in italiano, era tanto bravo e tanto bastava. Ha rappresentato dei lavori bellissimi al Café La Mama di New York.

Ci eravamo detti, quel pomeriggio davanti all'albergo, che ci saremmo confrontati, aiutati. Eravamo consapevoli che stavamo facendo un buon lavoro e che bisognava continuare.

Adesso Annibale non c’è più e Dario è tornato in America.

Comunque vadano le cose io so che andrò avanti a scrivere. E così, sono sicuro, faranno i D'Ambrosi, i Traverso e gli altri amici che stanno lavorando.

Edoardo Erba

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