Dario Fo è tra quelli che non vogliono dimenticare, anzi che vogliono ricordare ai più giovani - i quali (l'ha dimostrato una recente inchiesta) nella maggioranza non sanno neppure chi era Che Guevara - i nostri anni di piombo, segnati da morti misteriose che misteriose non erano, da eccidi, da una strategia destabilizzante, da scandali gravissimi.
È di questi giorni la notizia che la giunta comunale di Milano vorrebbe togliere la lapide in memoria della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli (avvenuta il 16 dicembre del 1969) dalle vicinanze della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, in cui il 12 dicembre di quello stesso anno avvenne una strage che poi si scoperse di origine fascista, ma di cui allora vennero incolpati gli anrchici. Così, diciotto anni dopo questa strage e diciassette anni dopo l’andata in scena di Morte accidentale di un anarchico (il 21 dicembre 1970), che da quegli avvenimenti nasceva, Dario Fo ripropone questo testo al pubblico, per ricordare quegli avvenimenti e quel clima.
E il pubblico, in maggioranza giovani, quel pubblico così particolare di Fo con una gran voglia di essere nelle cose, e di parteciparvi, l'ha sostenuto in questa sua prova con grande tensione, applaudendolo, ridendo (forse che il massimo di riso non è il massimo di tragicità?) e ritmando anche con le mani l'inno dell'anarchia con cui si è chiuso il primo tempo.
Morte accidentale di un anarchico è un tipico testo del Fo politico, dove realtà e finzione si intersecano in un gioco molto stretto, secondo la logica della forza, e del grottesco, in cui questo attore-autore eccelle. La realtà da cui si parte, anzi, è addirittura doppia: è la vicenda di un anarchico italiano precipitato dal quattordicesimo piano della questura di New York negli anni Venti; è la nostra, più recente storia italiana, che vide Pinelli precipitare senza un grido dal quarto piano della questura di Milano, scatenando tutta una serie di deposizioni reticenti, quando non false, tese a scagionare coloro che condussero un interrogatorio, definito dagli stessi interessati «duro».
Il piano della finzione di questo testo, che ha conosciuto censure e persecuzioni come pochi, è quello più propriamente teatrale, che trova un ritmo straordinario soprattutto nel primo tempo. Un gioco di false identità, di sostituzione di persone, di trabocchetti, che hanno a protagonista un Matto, convocato in questura in seguito a tutta una serie di denunce. Qui il Matto, così vicino a quei «sani da legare» che furono protagonisti di uno dei primi testi di Fo, si trova a contatto con una realtà schizofrenica, con un mondo della reticenza, della vergogna di cui vuole essere il giustiziere. Fingendo diverse identità, infatti, il Matto riesce a rivelare le connivenze, i colpevoli silenzi, aiutato anche da una giornalista curiosa che vuole fare luce nel pateracchio. Certo i personaggi hanno tutti nomi di fantasia, il commissario del maglione a dolce vita, per esempio, principale artefice dell’interrogatorio di Pinelli, qui porta il trasparente nome di Defenestra ma tutti, fra gli spettatori, sono in grado di riconoscere al di sotto dei nomi fittizi i veri protagonisti di quei fatti: il commissario Calabresi, il questore Guida, la giornalista Camilla Cederna…
Certo l’impegno, generoso come sempre, di Fo e di Secondo De Giorgi, Renato Carpentieri, Claudio Bisio, Mario Ficarazzo e Chicca Minini, andati in scena dopo pochi giorni di prove, è veramente encomiabile. Da segnalare anche la presenza di un suggeritore, necessaria visto lo scarso tempo delle prove, tipico di un teatro di pronto intervento, ma qui trasformato in un vero e proprio personaggio di sapore quasi pirandelliano, al quale Fo si rivolge anche in frequenti «a parte» a soggetto. Nella straripante melassa di questo Natale che ci si prepara perseguitato dalle luminarie, mentre il panorama sociale e politico non è dei più confortanti, Fo (che probabilmente andrà anche a Fantastico a parlare di questi argomenti) lancia il suo sberleffo, sottolinea la sua testimonianza per i molti che, come lui, non rifiutano il ricordo.