La conoscono tutti la storia di Dario Fo (e di Franca Rame) con la sua suddivisione in periodi decennali: gli anni Cinquanta del cabaret d'avanguardia e delle farse, gli anni Sessanta delle commedie surreali presentate nel circuito ufficiale in confezione da bestseller, gli anni Settanta del lavoro di militanza fuori dai teatri. Ma l'idea di dura critica politica alla base era sempre la stessa, quella che in pieno periodo commerciale faceva sfrattare violentemente l’attore da Canzonissima. Per converso gli anni della lotta più impegnata, con la raggiunta consapevolezza del ruolo di «giullare» dei nostri giorni, suggerivano a Fo alcuni capolavori e l'occasione indimenticabile di Mistero buffo: e in quel momento così drammatico della vita pubblica, la sua attività frenetica con Franca Rame, la dedizione a interpretare l’attualità in Camere del Lavoro e fabbriche occupate, portando il suo discorso civile nel cuore della protesta, faceva riscoprire la necessità del teatro, come ai tempi in cui questa forma d'espressione nasceva per coinvolgere tutti i cittadini, come tuttora nei paesi dove mancano le libertà fondamentali.
Il quarto Fo è un maestro un po' stanco, che scende di rado nell'arena, con uno sguardo più distaccato ma sempre partecipe; rinnova le sue invenzioni di cantastorie, si è annesso al repertorio un altro predecessore in Arlecchino, gira il mondo per vedere le sue opere e aggiungervi magari qualche contributo, flirta di nuovo con la Televisione che gli affiderà presto una trasmissione su RaiTre, e ogni tanto riprende un vecchio lavoro.
A volte la pièce ritirata fuori non sembra più la stessa di allora, pur essendo cambiato pochissimo; capita così anche a Morte accidentale di un anarchico, che nel frattempo è stata recitata dappertutto, anche in paesi come gli Stati Uniti che non sapevano nulla di Pinelli, l'anarchico «caduto» da una finestra della Questura di Milano nel dicembre '69, pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana, quando alla strage nera le indagini rispondevano proponendo una pista rossa.
Per trasferire la vicenda sulla scena, Fo si serve di un travestimento: inventa cioè il personaggio di un pazzo, mostruosamente trasformista, a seconda dei casi psichiatra, poliziotto, vescovo; per l’occasione, eccolo ispettore generale — come direbbe Gogol — arrivato prima del vero giudice a rivedere l'archiviazione del famoso caso, sotto la pressione dell’opinione pubblica. A contatto con il questore e il commissario dell’epoca, smonta l'incredibile vicenda e la rimonta, applicando alla lettera le argomentazioni dell'accusa con logica ferrea da soldato Schweik: la paradossalità della dimostrazione ridicolizza la polizia, costretta a rimangiarsi a uno a uno i pezzi dell'ingranaggio e perfino a cantare in coro l’inno degli anarchici.
Non importa molto sottolineare ora i limiti della seconda parte, dove prevale un moralismo predicatorio e appare un po' troppo strumentate l'inserimento di un giornalista, ispirata ovviamente a Camilla Cederna, che della battaglia per non far insabbiare il caso fu illuminata protagonista. Messo in scena a Milano, alla vigilia di Natale del '70, il testo aveva soprattutto una funzione di denuncia coraggiosissima in tempi in cui lo scandalo faceva paura e non era ancora divenuto un fenomeno di tutti i giorni: «l'Alka-Seltzer della socialdemocrazia» come lo definisce oggi il finale, col senno dei vent'anni di poi.
In quell'atmosfera, per far passare Morte accidentale di un anarchico, la si dovette presentare come trasposizione di una vicenda avvenuta a New York nel '21. Ma un filo diretto aggiornava la piece replica per replica con le notizie giudiziarie dell'ultima ora.
Si tratta spesso di particolari difficili da riconoscere oggi, che però non appesantiscono troppo la stesura ripresa nel nuovo allestimento, attualizzata al '72 e pubblicata per l'occasione nella sua integralità. Sussìste ormai, come per il pubblico straniero, una possibilità di lettura autonoma, sul piano di un divertimento corrosivo alla maniera di Prima pagina (film che aveva tra l'altro per oggetto la fine di un anarchico, anche se assumeva come bersaglio la stampa) o sul piano metafisico di un'introduzione a una giungla kafkiana. Ma per i più giovani che non hanno conosciuto i giorni di tremenda tensione in cui maturò una vicenda da molti di loro conosciuta solo per sentito dire, potrà risultare sconvolgente apprendere i particolari di questa lezione di storia. Per chi invece «c'era» può riuscire altrettanto impressionante confrontarsi con dei ricordi che si credevano fermi nella nostra coscienza e che si rivelano di colpo scoloriti; o scoprirsi rigettati in un «come eravamo» di cui inavvertitamente s'erano persi i contorni.
L’idea della ripresa non è comunque caduta dal cielo. Appartiene alla cronaca dei nostri giorni la notizia che il Comune di Milano sta autorizzando la rimozione da Piazza Fontana della lapide che ricorda il sacrificio di Pinelli «ucciso innocente». Sulla scia di questo fatto, ancora una volta, Fo s'è sentito chiamato a una presa di coscienza pubblica. L'odierna rappresentazione con luci fisse e suggeritore a vista, è stata quindi montata in meno di una settimana; eppure non ne scapitano l'immediatezza e la tensione della recita, anche se la memoria qualche volta sfugge agli attori tutti nuovi del cast: Claudio Bisio, Renato Carpentieri, Secondo De Giorgi, i più impegnati, con Chicca Minini e Mario Ficarazzo. L'autore, regista e protagonista trae profìtto dall’impreparazione per inventare soggetti e sfrutta il suo metamorfismo anche per rifare se stesso, dentro e fuori dalla parte, mentre restano irresistibili le sue gag quasi classiche, come la prova della camminata «da giudice» o la sagra di ululati per la simulazione della pazzia, per tacere del vertiginoso susseguirsi delle tiritere. Una lezione da non perdere, insieme al messaggio di non dimenticare. Grazie Dario.