«Cid» temerario ma con giudizio

Al Teatro Olimpico di Vicenza nel terzo anniversario di Corneille è andato in scena il suo capolavoro irto di difficoltà interpretative. Albertazzi, attore e regista, ha assolto al compito con capriccioso distacco e Giovanni Crippa s’è affidato alla freschezza dell’età nella parte di don Rodrigo

Testata
Il giornale degli spettacoli
Data
26 settembre 1984
Firma
Gastone Geron
Immagini
Immagine dell'articolo sul Giornale degli Spettacoli

Giorgio Albertazzi s'è fatto re e regista, nel terzo centenario della morte di Pierre Corneille, per riportare il «Cid» al palladiano Olimpico, trentadue anni dopo la fin troppo mitizzata edizione del Tnp di Jean Vilar con Gérard Philipe, Françoise Spira, Monique Chaumette.

È stata una scelta temeraria che ha dovuto fare i conti con almeno quattro ordini di difficoltà: la trasposizione scenica di un capolavoro che ai suoi contemporanei sembrò teatralissimo, ma oggi risulta forse più invogliante alla lettura che alla rappresetazione; il problema finora irrisolto di una traduzione che eviti il trombonismo cruscante o la faciloneria alla paggio Fernando, senza perciò imboccare la scorciatoia dell'appiattimento prosastico cui si attenne perfino Montale; la necessità di costringere la molteplicità dei luoghi scenici nella fissità della classica prospettiva vicentina dello Scamozzi; infine la concomitante necessità di riunire un «cast» all’altezza di così impegnativa rivisitazione.

Pur concordando con Giovanni Macchia che la lettura a tavolino defrauda i robusti alessandrini corneilliani delle loro sonorità squillanti e induce a scoprire più di una sovrabbondanza e inverosimiglianza che il palcoscenico meglio sopporta, non è certo un caso che il «Cid» abbia ormai secolare fama di tragedia più da leggere che da rappresentare. Non tanto perché il contrasto onore-amore che strazia il giovane don Rodrigo, non ancora proclamato Cid dai debellati Mori, possa apparire a dir poco anacronistico ai nostri cinici giorni, ma perché le trentadue scene corneilliane pretendono un'attenzione che sovrasta l'odierna ricettività dello spettacolo medio.

Tragedia a lieto fine, dunque tragicommedia, il «Cid» è sorretto da un verso «povero» che Guido Davico Benino ha acutamente tradotto anche nella sua irregolarità, rispettando il doppio settenario, ma non sempre la rima baciata dell'alessandrino, la cui aulica risonanza è stata conservata quasi unicamente in bocca ai «vecchi». Ma Albertazzi s'è concesso qualche correzione in nome della teatralità, nonché sforbiciate frequenti per non far slittare lo spettacolo oltre la mezzanotte.

Quanto all’impianto scenografico, Cosma Emmanuel ha dovto rinunciare al progettato muro che «cancellasse» la prospettiva di Palladio-Scamozzi, limitandosi a tripartire lo spazio in un «interno» su quattro colonne che un percorso privilegiato di rossa passerella collega con uno sferico astrolabio e più oltre con una colonna trono, simboli di quel potere assoluto del monarca che il trentunenne funzionario statale Corneille esalta nei confronti delle ultime resistenze feudali. Ma il trono non e soltanto per don Fernando, primo re di Castiglia, ma anche per il committente Richelieu, nonché per il suo equipollente teatrale, Sua Maestà il Regista; i cui ruoli connessi Albertazzi ha assolto con capriccioso distacco al limite dell'autoderisione.

In assenza di un Gérard Philipe odierno, il ruolo di don Rodrigo è stato assegnato a Giovanni Crippa che s'è sottratto all'improponibile confronto affidandosi unicamente alla nativa freschezza per rimandare il lacerato tormento del giovane gentiluomo costretto a vendicare l’affronto patito dal padre con l'uccisione in duello del temerario genitore della teneramente amata Ximena. Alla cui ansia di vendetta, in gridante contrasto con l'autentico amore per Rodrigo, ha dato fremente voce Benedetta Buccellato.

Ma nella tragedia delle contraddizioni che anticipa le due ancora più tipiche tragedie della volontà, Corneille insiste sulla dicotomia amore-onore (senza sagacemente prendere partito) innalzando ad autentica protagonista la poetica figura dell'Infanta, segretamente innamorata anch'essa di Rodrigo; la quale, vietandole la nascita regale il matrimonio con un gentiluomo, risolve di farsi regista della felicità dell'amato, favorendone la pacificazione con Ximena, infine appagata dalle gloriose gesta del «Cid» contro i Mori che minacciavano di saccheggiare Siviglia.

All'Infanta ha dato vibranti accenti la pressoché debuttante Laura Marinoni, già vista in luglio ad Asti accanto ad Albertazzi che le pronostica un avvenire d'eccezione. Mario Feliciani, vecchia quercia, s'è calato da par suo nel vecchio ma fin troppo bellicoso don Diego, avendo come «offensore» il don Gomes dell'ottimo Sergio Basile. Le «confidenti» Leda Negroni e Francesca Tardella, i gentiluomini Attilio Cucari e Roberto Fagotto, l’infiammato don Sancho di Claudio Bisio, il «ridicoloso» paggio di Carlo Manfio, l'intonato musico di Giuseppe Zambon hanno infine contribuito al successo della coraggiosa proposta di «Veneto Teatro», accolta all'anteprima da applausi particolarmente fervidi nei confronti di Cid-Crippa.

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