Si sa, parlare di Ubu di Jarry significa necessariamente trovarsi di fronte a quintali di teatralità pura, a parole in libertà, a meravigliosi, infantili giochi della fantasia. Tutto vero: ma pensare a Ubu oggi significa anche riflettere sul modo di interpretarlo. L'Ubure di Franco Branciaroli, attore fra i più interessanti della sua generazione non è la palla di lardo che una comune iconografìa ci riporta alla mente. E’, al contrario, un Ubu fanciullo, con gli stupori, la volgarità, la fantasia dei fanciulli; e i suoi sostenitori o sottoposti sono come compagni di gioco, tanti ragazzi della via Paal pronti a lanciarsi e a vivere tutte le sfide possibili a colpi di battute.
Scarpe da tennis, pantaloni soetenuti da bretelle, l'Ubu di Branciaroli ha come diretti antenati almeno due dei suoi personaggi precedenti: il Furfantello di Synge e il Tyltyl dell’Uccellino azzurro di Maeterlinck interpretato con Luca Ronconi. Il suo Ubu infatti, bello, addirittura simpatico perfino nella canaglieria, pronto a sognare, viene proprio di lì: come il Furfantello è capace di fingere una realtà inesistente, come Tyltyl sa che fantasticare vuol dire capire meglio la quotidianità, imparare a conoscere il mondo.
Branciaroli ci propone, dunque, un Ubu re eccentrico per molti aspetti, quasi cambiato di segno; una carogna divertente, un delinquente fantasioso, un monello volgare, che l’attore però interpreta senza immedesimarsi nel personaggio. Con un'ultima piroetta, infatti, Branciaroli prende le distanze dal suo personaggio, fa un Ubu tutto di testa, lo recita con un pizzico di straniamento anche, ma strizzandoci l'occhio, quasi ci dicesse: «Guarda adesso come faccio il cattivo, guarda che gran maiala che sono...».
La regia di Massimo Navone, secca e quasi artificiale, una gran voglia, però, sotto la pelle, di lasciarsi andare al gioco del teatro, ha costruito attorno all’interpretazione di Branciaroli tutto un tessuto di patafisiche gags. E in questo lo ha ben coadiuvato la scena di Thalia Istikopoulou, una gran rampa a spirale, tutta coperta di macchie colorate, che si avvita sulla cima in un minipalcoscenico che può trasformarsi in sala del trono, in avamposto durante la battaglia, in trabocchetto mortale per il rito della decervellizzazione.
La rampa circolare della scena fa un riferimento preciso, almeno ci pare, al teatro del russo Mejerchold, ai suoi clown sotto la tenda di un circo immaginario. E quei personaggi che si muovono attorno al patafisico re, con quelle tute macchiate di colori, con quegli stivaletti dal lungo pollice, pronti a fare acrobazie, a trasformarsi in finti cani feroci e in orsi zuzzurelloni, a farsi uccidere e poi a ritornare vivi sotto altre sembianze, ci ribadiscono, pure loro, quest'incontro con una teatralità bizzarra e un po' proterva.
Certo, questo Ubu di Branciaroli-Navone è un po' ridotto, svuotato, magari a una dimensione; ma, almeno, è un Ubu originale. E originali sono anche quel re di Polonia ubriacone, quello zar che cavalca enormi palle di gomma (ottimamente l'uno e l’altro Claudio Bisio), quelle palle di cannone che sono palloni lanciati contro il pubblico, questi scherani pronti a tradire ridendo, questa madre Ubu, volpe spelacchiata e scialletto di lana al collo che sembra uscita dall'Operada tresoldi (Chicca Minini), questo Burgelao principe spodestato (Gigio Alberti), che pare rubato alle stripes eroiche di WaltDisney.
Le spade sono fìnte come son finti i cavalli; ma tutto è gioco e, certo, nel gioco tutto può essere vero e tutto può essere finto. E la Polonia è proprio - come sosteneva Jarry — nulle part, in nessun luogo. Questo perlomeno ci dice l’Ubu dalla voce di testa, affannato e bizzarro di Branciaroli.