Il paese dei sogni si conquista con spade di carta

"Ubu Re" di Jarry secondo Branciaroli

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la Repubblica
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Tommaso Chiaretti
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E’ naturale esercizio, direi anzi che è dovere critico, specialmente quando un testo è tanto conosciuto e connotato come Ubu Re di Alfred Jarry, cercar non tanto di decifrarlo, ma piuttosto di scoprire i meccanismi che hanno portato sulla scena gli attori a recitarlo così. Così, come? Franco Branciaroli, con la regia di Massimo Navone, mi sembra ci abbia con intenzione offerto un Ubu, assai anomalo, un Ubu per così dire, vero e credibile. Vero e credibile nella sua fisicità, vero e credibile nella sua sonnolenza, vero e credibile nel suo inseguire la propria storia, che certamente non dovrebbe esser creduta.

Perché Jarry, quando ha costruito, nella sua lucida gioia patafisica, la costruzione lessicale straordinaria, la sequenza di scene di Père Ubu, certo aveva in mente qualcosa di assolutamente libero, di misterioso e di stravagante e sprezzante, un contadino di sicuro mostruoso, che viveva in Francia ma anche nella favoleggiata Polonia, usurpatore di un Re Venceslao, e combattente di una incredibile guerra, marito della altrettanto debordante Madre Ubu, regina per farsa irragionevole. I surrealisti gli dettero mano, all'adorato Jarry, costruendo la loro immagine di Père Ubu come di un mostro quasi repugnante.

Ma l'Ubu di Branciaroli, che vediamo addormentato sul bordo di una costruzione circolare e macchiata di molti colori, sull'orlo di un abbozzo di spirale o torre di babele in cima alla quale si innalza il trono di Venceslao, insegue invece, veramente, un fantasma tangibilissimo, e lo insegue perché — mi par evidente — lo sogna. Il processo a cui Branciaroli, con una accennata ma sicura intuizione, si adegua, fa di Ubu un analogo del più grande, e non surreale né patafisico, personaggio della letteratura mondiale, di Don Chisciotte, o se volete di Sancio Pancia.

Questo Ubu è come nutrito di ridicola letteratura, quasi cavalleresco anche lui. I suoi Venceslai, la sua Polonia, la sua Russia, i suoi gendarmi i suoi accoliti, i suoi mostri, i cavalli e gli orsi, e i cani ringhianti, sono come il Toboso e i mulini a vento, sono tutti nati da una sua fantasia delirante per difetto, e se ne potrebbero trarre utili consigli psicologici.

Non v'è dubbio che questo piccolo, simpatico, apparentemente truce, Papà Ubu, sia pieno di piccolissime voglie di aggressività: scalzare un trono ridicolo e vicinissimo, dominare la piccola nazione lontana nella immaginazione con i più usuali mezzi del potere perverso e assoluto, non v'è dubbio che egli abbia una concezione ingenua del potere dispotico, fatta di piccole ritorsioni, del gettar la gente nel buco, o di dirigere inesistenti eserciti dall'alto della collina, di andar per mare alla ricerca del disperato ritorno, e che viva nel terrore di risvegliarsi un giorno e non trovar nulla, nemmeno le povere bistecche che sognava dianzi.

Apparentemente, non v'è dubbio, questo è un Ubu riduttivo, familiare, addirittura povero. Son come dei ragazzi che giocano all’avventura, su un monticello fuori del paese, con i loro costumacci inventati e le loro spade di carta. Che giocano a fare i cani e i cavalli, che non muoiono mai, che morti subito si levano, non con un ghigno ma con una allegra risata.

E Ubu non è un folle Re della Patafisica, è solo un fantasioso divertito monello-regista, un sempliciotto cui si da il credito che va dato allo scemo del villaggio. Una idea non dirompente, ma efficace, una idea che vuole, dopo tutti gli anni che son passati e tutti gli Ubu che si son visti, dimenticare la trasgressione e stare attenti a un testo che si è sempre presentato come straordinaria macchina teatrale.

Faccio appena il doveroso riferimento all'Ubu di Peter Brook, che apparve straordinario e misterioso per altre ragioni teatrali per la sua nudità espressiva e per la gioia incontenibile della sua recitazione. Dico gioia come segno effervescente di una liberazione del corpo, che seguiva di pari passo la liberazione della parola, le randellate che venivano rivolte al pubblico, la mai goffa cialtroneria di Madre Ubu, la assoluta mancanza di un décor.

Qui il décor c’è, è quella scena spiraliforme di Thalia Istikopoulou che ben serve come percorso della accattivante fantasia, sono i costumi poveri e tuttavia pieni delle macchie scolate da una tavolozza piena. Non so se ci vuole essere un riferimento alla teatralità esplicita, alla finzione, che anche i bei costumi dei cani dei cavalli e dell orso suggerivano. Certo era come un Ubu riservato, quasi schivo di un colpo di teatro. Un Ubu che deve essere decifrato tutto, in una sequenza quasi logica, un Ubu che rifiuta quasi con timore il lavoro sulla lingua, sulla parola inventata, sulla sprezzatura semantica, sulla aggressività magari facile della coprolalia.

Tutto quel che resta di quell’antico lavoro già fatto sembra essere la derivazione della parola «merda» come intercalare bizzarro, e ripetuto senza scandalo. Ecco, un Ubu senza scàndalo, un Ubu divertito e anche con qualche tratto patetico: ché questo povero usurpatore di villaggio con le bretelle, in fondo, suscita attorno a sé una grande tenerezza. E Branciaroli non lo recita con spavalderia, anzi si pone di fronte al sognato con il timore di strafare, con il dubbio che quelle ribalderie immaginate potrebbero anche esser vere, lo sono nell’inconscio, come ogni facile addetto sa.

Chiara Minini come Madre Ubu era anche essa un personaggio inequivocabilmente concreto, palpabilissimo, e seguiva con bella sicura ostinazione la follia del Padre, secondandolo come fosse un ragazzo un po' disturbato, certo mancante di concretezza. Claudio Bisio era un ottimo Re spodestato. Gigio Alberti uno spaurito Bugrelao cui viene affidata la futile sete di vendetta infantile. E tutti gli altri, che si son divertiti a battersi in una guerra che non fa, non fa più, vittime.

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