La vicenda

Le due e mezzo di un desolato pomeriggio. Uno spazio devastato. Un'aula diventata terra desolata dove nulla è più come dovrebbe essere. Niente è in ordine. Quasi un lavoro ben fatto. Infatti non c.è più niente da fare. I vetri: rotti. Il bianco dei muri: ferito dai segi sanguinanti tracciati con gli spray. I banchi: materiale per barricate. Il gesso, i libri: niente più libri o gesso nella 5C!

Ed eccoli, gli avanzi di questa classe, la più temuta dai professori più volte sconfitti nel duro confronto con l'aggressività costante e la violenta provocazione che li ha costretti sempre all'abbandono.

Sei tipi. Iron è il più vecchio, il più forte, il più determinato, e quindi il capo. ll suo potere assoluto è però contrastato dai continui attacchi di Skylight, occhialuto vice, in cerca di consensi nella classe. Sweetheart, sensibile e sognatore, è costretto al ruolo di palo alla porta: è lui il portatore dell'utopia nella classe attraverso la visione di un giovane biondo alto professore dagli occhi azzurri. Racks, ironico e perennemente assonnato, è capace di creare immagini apocalittiche di incontri femminili mostruosi e di epiche battaglie contro i gatti che distruggono i gerani di suo padre. Poi c'è Nipper, il nano punk, pericoloso per la sua incredibile carica di violenza distruttiva, ma perennemente gregario. E, infine, Snatch: il negro della situazione, affetto da un incontenibile voglia di rivincita sfogata da sempre con la sistematica distruzione di ogni genere di vetrina. E' lui l'ultimo, in tutti i sensi; anche l'ultimo a capire che la situazione precipita verso un epilogo violento.

La storia è semplice da raccontare. Senza il professore, la classe è privata del suo sport preferito: non resta che ricreare da soli la situazione abituale, la lezione. A turno, ognuno di loro diventa il professore e tiene lezione agli altri. In palio, per il migliore, un vasetto di marmellata vuoto.

Ma, dietro all'apparente scontro tra un Iron arbitro incontrastato e il resto della classe, dietro al permanente duello fra Iron e Skylight, si cela la lotta fra il cinismo spietato di chi sa che non c'è via d'uscita da quelle pareti e chi cova ancora un'illusoria speranza.

E ognuno alza le sue barriere difensive: chi l'ironia, chi una finta sicurezza ottimistica, chi una cieca rabbia distruggitrice.

Ma alla fine, quando suona la campana, nessuno ha più niente da dire. L'autodistruzione si è consumata. Un immeso, lungo silenzio cala su tutti. Il dolore per l’impotenza può dare come unica soluzione un urlo disperato.

Ma non c'è posto nemmeno per quello: solo la musica può sostituire la comunicazione interrotta.

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Milano

Milano. Una città in cui vivere può essere facile, può essere difficile, può essere impossibile. Una città dove la cosa più bella non è certo il Duomo, ma la tangenziale, soprattutto di sera: l'uscita di via Rubattino, l'Innocenti, il rosso-rame degli specchi, il rosso-sangue del cielo al tramonto, l'orizzonte di Milano. Bello. Almeno "per chi ci piace", come si dice qui. Una città che nella sua storia recente ha conosciuto rivolte, speranze urlate in piazza, desideri collettivi trasformati in slogan a volte stupidi a volte bellissimi, scritte sui muri, case occupate, centri sociali. Violenza. Scontro. Ma anche spazi di libertà conquistati, difesi, costruiti, inventati. Distrutti. La rivolta, trasformata in mille modi dai suoi protagonisti, ha alla fine conosciuto un risultato certo: la sconfitta.

Nessuno parla mai di Milano come città che ha sconfitto la rivolta giovanile. Forse, rassicurandosi, il lettore del Giornale Nuovo. E, forse, anche quello dell'Unità. I lettori di Repubblica, nata "dopo", sono forse tra quelli ritiratisi in buone posizioni prima di finire tra gli sconfitti.

Gli sconfitti. Non si vince se qualcuno non perde. Ma chi è stato parte di quelle rivolte, adesso guarda indietro e giudica "oggettivamente" quel se stesso un po’ ingenuo e molto arrabbiato dal proprio presente de-ideologizzato, professionale, un po' cinico, in una parola inserito.

Gli inseriti, gli integrati, compresi gli insoddisfatti e gli ironici, non sono degli sconfitti. E' esagerato dirli passati dall'altra parte. Sono come gli svizzeri: neutrali.

E allora? Sconfitta senza sconfitti? Qualche volta leggi di uno che te lo ricordi pure bene: l'hanno trovato morto. Ecco: quello è uno sconfitto. Ma a dire il vero gli sconfitti sono quelli che si trovano in eredità questa Milano senza più posti dove stare a "fare" qualcosa, senza più case dove trovare rifugio al di fuori della famiglia (se non pagando affitti da petroliere, e poi tanto figurati se affittano). Non più margini di rivolta. Non più progetti. Non più quel fare caotico, disorganizzato, cialtrone, e forse anche presuntuoso, ma che era pur sempre fare qualcosa. Niente. Più niente da fare.

Ecco le vittime di una sconfitta inevitabile ma su cui c'è da pensare, almeno.

Certo, per chi ha dirottato il suo "fare" dalla rivolta sulla professione, sul mestiere, da fare ce n'è. Quanti teatranti, quanti "flm-makers", qaanti organizzatori della cultura. Hanno, abbiamo scelto la strada giusta: la struttura, il duraturo invece dell'effimero. Ma non si porti come esempio il destino professionale di alcune avventure individuali e collettive per minimizzare la cancellazione di tante altre avventure di gruppo nate dall'esigenza di "fare" comunque qualcosa. Si è fatto ordine, ed ora i quindicenni hanno perso con la libertà di ribellarsi anche la parola: è la musica per loro. Ma non solo musica da ascoltare: per molti musica da suonare. Milano città rock. Estrema soluzione per non essere cancellati. Rifiuto di divenire giovani come fascia di mercato privilegiata.

Oggi io, spettatore, si può dire, di questa Milano reale e crudele, io che in questi anni ho compiuto il mio viaggio all'interno di un mestiere e delle sue istituzioni, io ho maturato il desiderio di riuscire a parlare di questa Milano. Cambiare il mio punto di vista e vedere la cosa un po' più dal basso. E, in questo modo, andare anche più a fondo nel mio mestiere. Cercare la realtà. E' strano che un aiuto sia venuto da Londra, attraverso il filtro violento di Berlino.

Ma non è poi così strano. Vi spiego il perchè:

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“Class enemy” di Nigel Williams

"Io posso farmi Racks Nipper può fare me Skylight può fare Nipper e Iron può farci tutti quanti".

Una semplice gerarchia. Il criterio della forza in fondo è semplice per valutare una persona. Non ci sono complicazioni, nè se nè ma. E' tutto lì, nella stupida evidenza di quel "fare".

Il meccanismo su cui si basa “Class enemy", l'artificio tipico del teatro, e soprattutto di quello contemporaneo, è quello dell'isolamento dei protagonisti in una cella minima di spazio e di tempo che evidenzi in un flusso reale l'azione delle forze e delle tensioni rappresentate dai personaggi.

In questo caso l'artificio è ancora più drastico perchè allo spettacolo si è tolto addirittura il protagonista, il "nemico della classe" che catalizzava su di sè l'odio e l'aggressività, espressione del bisogno di autoaffermazione dei sei ragazzi.Come si fa a combattere la solita guerra se un pomeriggio il nemico non si presenta?

Ecco, da qui parte un crudelissimo esperimento, che una volta si sarebbe chiamato autogestione. Ma oggi non esiste più il filtro consolatorio dell'ideologia a riempire i silenzi di parole prese a prestito, e del resto non esiste neppure una qualsiasi “cultura" cui fare appello se sei sbattuto in cattedra con cinque paia d'occhi che ti guardano e la voce del capo che dice: "Insegna!"

Allora il gioco, cioè la lotta per la ricerca dell'"essere qualcuno" diventa il confronto interno, la creazione e ricreazione di una gerarchia naturale tramite il rito della lezione. E la lotta, come tutte le lotte, trova anche una dimensione di improbabile scontro fra improbabili "idee": da una parte la tenace e violentissima difesa del proprio primato che porta Iron a giustificare il proprio odio per il mondo intero come unica possibilità di sopravvivenza (o di morte onorevole): dall'altro l'ambigua ricetta di speranza che Skylight contrappone alla brutalità di Iron, una speranza riposta in un aiuto dall'esterno, e proprio per questo profondamente ambigua.

La ricetta di Iron è: "Meglio bruciare subito che spegnersi lentamente". Quella di Skylight è: "Tutto quello che ci vuole in questo mondo è pazienza". Sono tutte e due ricette povere se applicate ad un universo dove le vie d'uscita dalla gabbia sono inesistenti.

Qui arriva la ricetta di Mr. Williams, credo. E forse è: "Arriverà qualcuno", o forse: "Non smettiamo di sperare: smettere di sperare è peggio". Credere o non credere al sogno di Sweetheart, al suo professore alto giovane biondo che viene verso la classe, crederci o non crederci è lo stesso: questo ennesimo Godot non arriverà. La campana della fine delle lezioni suonerà lasciando soli e senza più nulla da dire i nostri sei... non più emarginati, ma rifiuti, scarti.

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Da “Class enemy” a “Klassenfeind”

Che questo gioco si svolga a Londra, per la precisione a Brixton, io non ve l’ho detto. Lo si può sospettare dai nomi. Ma non da quel che accade in questa storia.

E' incredibile come questo testo, quasi "desiderato prima di sospettarne l'esistenza", dica moltissimo anche spostato dalla sua ambientazione originale, trasferito a d esempio a Berlino.

La Schaubühne, anzi un gruppo di giovani attori della Schaubühne con la regia di Peter Stein, ha operato il trapianto.

Per bocca stessa di Nigel Williams, ne è uscito uno dei migliori "Class enemy" mai rappresentato. Meglio di quello newyorkese prudentemente ambientato nel declino sociale ed economico dell'Inghilterra. Forse, ci è parso di capire, anche meglio dell'edizione inglese alla Royal Court.

Certo: Berlino è una città speciale. A Berlino c'è Kreutzberg, ci sono le case occupate. A Berlino c'è il muro, ci sono i punk e i turchi. Berlino è una gabbia già di per sè, una gabbia con regole speciali.

"Chi non ha il coraggio di sognare non ha la forza di lottare" ha scritto sulla sua casa occupata il mio ospite Andreas. Ma poi ha installato un grosso antifurto con allarme a sirena e faro intermittente arancione. Concretezza o poca sensibilità per la contraddizione?

La contraddizione, a Berlino, è ovunque: anche nel lento inesorabile restringimento della Kreutzburg che subisce l'erosione operata dalle disoccupazioni e dalle ristrutturazioni, mentre allo stesso tempo le case occupate del cuore di Kreutzberg sembrano "istituzioni" destinate ad una lunga vita. I tedeschi si vestono male e, per assurdo, sono i punk che dedicano maggior cura al proprio aspetto estetico (almeno loro curano un'immagine).

Sì. Ambientare "Class enemy" a Berlino funziona. Iron e Skylight possono essere Fetzer e Voilmond, un negro può diventare un turco. Il trapianto non ha tradito il testo. Anzi, lo ha reso più vero, meno astratto, più vicino, più realistico. Anche più violento, più crudele.

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“Nemico di classe”

Ed ecco la nostra eredità. Appena letto, questo testo lascia l'impressione di una costruzione drammatica molto accurata, di un'abilità nella creazione di momenti di tensione, di momenti di vuoto, di momenti comici e perfino poetici. I personaggi sono talmente definiti da riconoscere loro una vita reale. Si ha la sensazione di avere a che fare con qualcosa di vicino.

E allora tentiamo il trapianto.

I rischi aumentano. Il lavoro va fatto più seriamente. Coinvolge. Ha bisogno di verifiche continue. Non è mai definitivo. Se qualcosa suona male ne attribuisci la responsabilità ad una trasposizione troppo meccanica di linguaggio, di situazione o di vocabolo, di nome... Beh, è un lavoro che continua ancora adesso. Inutile descriverlo.

Vi dirò invece quanto terribilmerte (e più di quanto non credessi all'inizio) questo testo parli, anche, di Milano. Il senso di mancanza di progetto, il vuoto, la violenza unita ad una così profonda umanità di questi personaggi, è la stessa degli eredi della rivolta sconfitta qui a Milano.

Parlando in giro in ambienti oscillanti tra rock e Beccaria, il testo trova le sue prime conferme. Anche il linguaggio, che pure si evolverà quando da traduzione scritta diventerà espressione verbale sulla scena, è già un linguaggio 'vero', non solo il frutto della mia immaginazione.

Ora spetta a noi, attori e regista, trasformare il tutto in una cosa viva. Era un desiderio emergente in molti di noi quello di fermarsi un attimo a tentare i propri messi al di là dell’esuberanza dello spettacolo.

Questo testo è un’occasione, una felice comunione fra un desiderio di teatro che parli della realtà e la ricerca della realtà che l’attore può compiere attraverso il suo personaggio.

Stare in scena quasi tre ore, tutti. Costruire uno spettacolo basato su sei personaggi che gli attori devono recitare sempre, non solo quando hanno la battuta: una lezione che mi ha colpito profondamente nello spettacolo della Schaubühne e che costituisce la sfida più bella del nostro spettacolo.

Elio de Capitani
(30/09/1982)

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