LA STORIA DI UNO SPETTACOLO

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Forse è il caso di dire due parole su come abbiamo lavorato. Per fare un paragone abbastanza calzante: qualcosa di più simile ai dati tecnici della fotografia (macchina, obbiettivo, fuoco, pellicola, tempo di esposizione, sviluppo) che alla teoria dell'immagine fotografica.

LA TRADUZIONE DEL TESTO

Si è svolta tra il marzo e l’ottobre '82.I primi tentativi li ho fatti sulla versione tedesca (quella messa in scena dalla Schaubühne) con l’aiuto di Hubert Westkemper, durante la tournée del "Sogno di una notte d'estate" Poi, trovato il copione originale inglese, c'è stata la prima sommaria versione su cui Beth Boeke lavorava ogni momento e in ogni luogo (dal metrò milanese al giardino della sua casa ad Amsterdam), e quindi la prima versione per il copione di prova che sono riuscito a finire a notte inoltrata l’ultimo giorno di agosto.

PREPARAZIONE

Nel frattempo, la mia testa lavorava alle immagini del futuro spettacolo. Leggo le prime battute a Claudio Bisio e ad Antonio Catania. Ci interroghiamo sui quattro attori mancanti.

A giugno: viaggio a Berlino e ad Amsterdam. Vedo "Klassenfeind", regia di Peter Stein. Conosco gli attori della Schaubühne: lunghe chiaccherate nelle serate dopo-spettacolo all’Holland Festival. Rallentamento della preparazione a luglio per la tournée estiva del "Sogno". Intensificazione in agosto e, sopprattutto, in settembre-ottobre. Colloqui con Markus Imhoof sul realismo, sulla recitazione. L'“Enrico IV” del Collettivo viene all’Elfo: altre chiacchere con Gigi Dell'Aglio sul “parlar da re e il parlar fra me e te”, interessante definizione che coincide con una parte del lavoro che voglio provare a fare. Discutiamo molto del loro metodo di prova: la voglia di cominciare a provare cresce.

A fine luglio avevo quasi chiuso il cast con Riccardo Bini e Paolo Rossi. Al pelo per l’inizio delle prove la classe è completa con Sebastiano Filocamo. Sono contento. Il primo ostacolo, quello di trovare gli attori giusti, sono sicuro di averlo superato benissimo. Manca solo il Professore, ma poi a dicembre arriva Maurizio Scattorin e siamo al completo.

PROVE

1° Novembre - 2 Febbraio: tre mesi. Niente tavolino, niente parti a memoria. Divisione dettagliata del testo in sequenze, e identificazione in ogni sequenza di piccoli nuclei drammatici o incisi (in genere contrasti a due).

Ci raccontiamo la storia. Parliamo dei personaggi. Vediamo materiali video sui giovani a Milano. Qualche visitina qua e là. Costruiamo le prime atmosfere da classe nei rapporti fra noi. Le prime improvvisazioni senza testo, poi con testo libero, poi con contenuti liberamente associati al testo originale. Esercizi di rapporto fra noi, di attenzione, lavoro sullo sguardo, sulle distanze reciproche. Indicazioni agli attori il più possibile indirette, parallele: il meno possibile di "fallo così" e il più possibile di "fai questo o quello mentre lo dici" e "pensa a quello mentre lo fai".

Lavoriamo molto sulla tensione. Urliamo tutti come matti, ma è un passaggio obbligato. È difficile riprodurre anche due sole volte un lavoro improvvisato sulla tensione. Si cerca il controllo, ma il lavoro principale è eliminare le scorie di "recitazione", le "stampelle tecniche" degli attori e trovare quel "parlar fra me e te". Qualcuno è già molto vicino a questo risultato, qualcun altro un po’ meno, ma per ognuno, con strade diverse, la meta è uguale. Creare un personaggio che sia la fusione di memoria, fantasia, ragione e testo: il che, una volta detto, non vuol dire nulla; ma chi ha provato a lavorare in un modo simile al nostro, forse può capire anche da queste poche parole. A volte si discute, anche teoricamente. Ma, per lo più, si sta nella classe, si fa la classe, anche negli scherzi, nei giochi. La farina, “oggetto di scena” suscita incredibili azioni e reazioni on crudeli vendette a catena. Il video ci riprende, anche quando non proviamo. Caduta la prima opzione sociologica, è il nostro comportamento che studiamo. Man mano si strutturano le prove, riordiniamo il lavoro secondo le sequenze del testo. I dialoghi non sono formalizzati.

Il lavoro di formalizzazione è iniziato il 3 gennaio con l’ultima fase di prove e il trasferimento dal Beccaria, dove abbiamo lavorato “in isolamento” per due mesi, all’Elfo: dove le prove cominciano ad essere frequentate. Lo sforzo di formalizzare anche il testo crea qualche eccesso e si perde qualcosa della sonorità sporca, delle sovrapposizioni e dei toni della semimprovvisazione. Per qualcuno è un supporto, ma per altri è una stasi creativa che viene recuperata costruendo una linea di azione costante e motivata del personaggio durante le prime prove filate.

Si recita sempre tutti, non solo chi sta dicendo la battuta. Cerco di introdurre alcuni vuoti (pause), previste dal testo, che però una specie di “horror vacui” collettivo comprime e annulla. L’inizio cambiato (si torna al testo e al suo inizio "flash") dimostra di funzionare molto bene, ma il lavoro precedente non è stato inutile. È memoria per tutti: abbiamo costruito un'atmosfera, la noia di un pomeriggio a scuola, con il mandarino e la coca-cola, gli aereoplanini e il fuoco.

Lo spettacolo c'è già. Qualche personaggio è ancora un po' rozzo. Io sento il disagio di avere un po' trascurato Iron, il mio personaggio, per seguire gli altri. Mi metto sotto: sguardi esterni confermano una sensazione di rapido miglioramento. Facciamo una prova generale quando mancano dieci giorni alla prima. Ci sono cento-centoventi persone: amici, giornalisti, operatori teatrali, venuti per un tam-tam che dimostra l'interesse per il nostro lavoro. E’ stata una prima clandestina: un’emzione che non si provava da anni.

Alla fine ci vergognamo e non usciamo a prendere gli applausi. Trasferimento a Parma dove lo spettacolo deve debuttare il 2 febbraio. Lo spettacolo non è ancora a posto capiamo però che è fatta: ora siamo ai ritocchi e invece questi dieci giorni, in cui riusciamo a provare pochissimo, sono giorni di scoperte e conquiste fondamentali per gli attori. Le "filate" migliorano giorno per giorno. Il primo tempo cambia, con alcune modifiche ai primi venti minuti. Il ritmo non è più così costante: si spezza, si arricchisce di sorprese spiazzanti per il pubblico. Sentiamo lo spettacolo crescere e noi che ci cresciamo dentro. Due giorni prima del debutto facciamo una prova stupenda. Alla fine c'è molta gioia è molta emozione. La prova generale del giorno dopo, ovviamente, è un disastro o quasi.

E altrettanto ovviamente, alla prima tutto va bene e la sensazione è di aver fatto qualcosa di veramente buono.

“NEMICO DI CLASSE” da allora cresce ogni giorno. La versione definitiva dei dialoghi non è ancora stata finita, ma le ultime scorie di "traduzione" vanno sparendo nel corso delle repliche.

ELIO DE CAPITANI
(14 febbraio 1983)

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NIGEL WILLIAMS

E’ nato nello Cheshire (Gran Bretagna) nel 1948. Ha seguito gli studi alla Highgate School e all’Oriel College, Boston. Un suo primo breve testo teatrale viene rappresentato allo Square One Theatre di Londra nel 1976. Nel 1977 pubblica il racconto "My life closed twice" vincendo il Somerset Maugham Award. Lo stesso anno la BBC-2 trasmette un suo lavoro per la televisione, 'Talkin' Blues'.

“Class enemy”, andato in scena per la prima volta al Royal Court Theatre di Londra nel 1978, gii valse il riconoscimento di più promettente autore teatrale dell'anno. È il suo testo più rappresentato (a New York, a Londra, a Berlino), e numerosi allestimenti sono previsti un po’ ovunque per la prossima stagione. Negli ultimi anni ha scritto per il teatro “Sugar and spice”; “Line 'em” e “Trial run”; e un altro racconto “Jack be nimble”.

Nigel Williams è sposato, ha due figli e vive a Londra.

“NEMICO DI CLASSE” di Nigel Williams è stato recensito da un critico del New York Tomes parafrasando Osborne e Beckett. Il titolo dell’articolo, a memoria, lo ricordo così: “Look forward in anger/Waiting for the teacher”.

Una miscela di rabbia e attesa dove la speranza finale, l’utopia, il sogno, hanno più il sapore del delirio di un assetato nel deserto che quello a volte altrettanto illusorio ma più umano della consolazione di un ammalato incurabile.

La delusione davanti alla porta della vita. Il frammento della sgangherata ma vitale filosofia del poeta Eumolpo, quella dichiarazione di un avventuriero malinconico, di un libertino, di un edonista, il suo “vivere intensamente” oggi acquista un senso totalmente diverso riassumibile in due parole divenute ormai simbolo sfatto e consumato delle ultime generazioni: NO-FUTURE.

Un simbolo inquietante nel suo sintetico e cinico pessimismo.

Ma “NEMICO DI CLASSE” sfugge queste sintesi e sceglie una strada più analitica: molte delle risposte possibili oltre al duro rifiuto di ogni confronto col mondo reale emergono nei due atti in un crescendo continuo di tensione. Certo, ogni risposta è subito negata, ogni tentativo di respirare un’aria meno opprimente è respinto: ma le domande restano.

Il senso di vuoto. La noia. L’attesa.

CABRIOLET: “E anche qui dove le strade sono lastricate di merda per via che hanno fatto fuori tutto l’oro e che a volte non ti mandano un professore che sia uno per dei giorni: è vivere questo? E’ meglio che essere morti, tanto per cominciare.”

IRON: “Che ne so io? Non ho provato a essere morto.”

Essere morti. Si può essere morti anche da vivi. Si può essere sopenti. Chi non ha più la forza di sognare non ha il coraggio di lottare. Spegnersi.

Spegnersi lentamente. Come quel professore. Una volta, forse, ci credeva al suo lavoro. Adesso…

PROFESSORE: “Dopo quello che avete fatto alle porte, alle finestre, ai muri di questa scuola, non penso che un nome o una sconcezza in più possa fare differenza. Abbiamo smesso di preoccuparci dell’aspetto di questo posto. Abbiamo smesso di preoccuparci,”

L’istituzione non può rinunciare. Gli uomini sì. E la rinuncia è cominciare a spegnersi. Rinunciare a capire, oppure capire che non si può fare nulla di più? Abbandonare.

IRON: “Ascolta. Non ti preoccupare se ci lasciano all’asciutto. E’ quello che ti hanno fatto dal primo giorno in cui hai messo piede in questo scannatoio. Con un professore ogni 400 allievi e niente libri e niente posti dove fare un po’ di casino e niente, un cazzo, zero, zero virgola zero, merda, niente di niente. Non menarmela con storie tipo abbandonato qui, abbandonato là. A te ti hanno abbandonato anche il giorno che sei nato in un condominio alto dieci kilometri…”

Niente compromessi allora. Tenere duro. Reagire. Ribellarsi.

Distruggere tutto: i banchi, i vetri, i libri e i muri. Dimostrare, in questo deserto invivibile, che si è ancora vivi.

PROFESSORE: “Penso che se vi mettessimo nel paradiso terrestre in dieci minuti lo fareste diventare un bordello”.

IRON: “Certo che possiamo, stronzo. E sai perché?… Perché l’unica cosa che non distruggeremmo sarebbe una cosa nostra. E di nostro non c’è niente. Voi non ci avete dato niente, e quello che ci avete dato ce lo togliete quando vi fa comodo. E finché ci tratterete così noi continueremo a distruggere.”

CABRIOLET: “Tu ti distruggi da solo, Iron.”

La risposta di Iron potrebbe essere quella che Dennis Hopper ha preso a prestito da Neil Young nel film “Out of the blue”:

MEGLIO BRUCIARE SUBITO CHE SPEGNERSI LENTAMENTE.

Elio De Capitani
(25 dicembre 1982)

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UNA LETTERA DI UGO VOLLI

Abbiamo chiesto a Ugo Volli, critico teatrale de La Repubblica, un intervento su questo programma. Ci ha risposto con la lettera che qui riportiamo.

Milano, 16.10.83

Caro Elio,

mi hai chiesto un intervento sul programma di "NEMICO DI CLASSE". All'inizio ho esitato, perchè queste cose sono spesso formalità o lavoro sottobanco, che io detesto. E del resto io avevo già scritto quel che ne pensavo l'anno scorso, in quella maniera un po' convulsa e imprecisa che nasce dalle condizioni materiali del mio mestiere di recensore - un modo che spesso mi dispiace, ma pure ha un suo fascino proprio nel suo essere effimero e quindi soggetto a innamoramenti e incazzature, leggero ma serio, insomma nobile, vivo, tutto dentro il qui e ora (e dunque tutto il contrario di quel che pensano e fanno i soloni della critica).

Avevo scritto del tuo spettacolo, con passione e gratitudine, come una di quelle rare volte in cui sento di aver ricevuto qualcosa da chi fa teatro, e vorrei rispondere subito con un gesto della stessa qualità. Proprio per quella gratitudine, dunque, ti scrivo oggi; ma sono passati molti mesi, il ricordo non brucia più come quella sera, ma resiste nella memoria tiepido come qualcosa di vivo fra le molte pietre di cui mi carico sera dopo sera. Non sono più in grado di analizzare in maniera critica pregi e difetti del vostro lavoro, se mai lo sono stato; e neppure di percorrerne l'arco spiegando le ragioni della mia emozione, punto per punto: le parentele sotterranee con chi di voi parlava d'amore (Cabriolet) e quelle più "politiche" con chi predicava la rivolta senza speranza (Iron), il gioco sottile di inclusione e di contrasto, di responsabilità storica e di superamento che mi prendevano come in una rete, mi facevano sentire insieme soggetto di quell'avventura inutile e ripetitiva, oggetto della pubblica dimostrazione antropologica (che lo spettacolo tutto sommato era), testimone di una vicenda che si svolgeva lì sotto i miei occhi in forma esemplare, ma mi ero sentito intorno per molti anni.

No, non sono più capace di parlare di quelle concrete identificazioni e repulsioni e quindi di quelle contraddizioni interne che ho vissuto nel tuo spettacolo. D'altronde non ne vale forse neppure la pena. Noi siamo una generazione che ama troppo parlarsi addosso, immaginare problemi e drammi storici al posto di quelli che non ha vissuto, fingere tormenti sociali e spirituali superiori alle sue forze.

Anche questo bovarismo generazionale (che è stato contagioso anche per le classi d'età più giovani, almeno fino a un certo punto) c'è nel tuo spettacolo. Ragionare nei termini dei "giovani" è stupido, riparlare di '68 e '77 ci fa reduci e pensionati a vita e sconta soprattutto una caduta di immaginazione e di impegno. L'avevano ben capito i Taviani in "ALLOSANFAN", un film che sono stato fra i pochi ad amare. E del resto la malattia di cui soffrono i ragazzi della V C, e noi con essi, non è né miseria, né emarginazione (perché in fondo oggi, anche nei più brutti quartieri di Milano, Londra o Berlino ce n'è meno di quanto mai ce ne sia stata in tutta la storia. A Lagos, Lima, Calcutta, ma in fondo anche a Napoli, il discorso sarebbe diverso, ma non del tutto).

Soffrono di noia. Il "mostro delicato", il "peggiore dei peccati" di Baudelaire, proprio quella roba lì, che una volta era un prodotto per ricchi dandy e adesso è merce di massa: come l'eroina, del resto. Noia, perdita del senso, incapacità di darsi delle mète, inconsistenza dell'orizzonte individuale e sociale. Anche qui, naturalmente; questa è la nostra malattia, e l'identificazione scatta. Come nello spettacolo, dobbiamo chiederci dunque chi ci ha rubato il senso che ci manca. Il sistema? Da lungo tempo abbiamo capito che è un'ameba senza centro, che non può pianificare troppo, né toglierti quello che non gli dai. La politica? Un po' sì, certo, ma a chi ci viveva dentro. Il terrorismo? Ha certo rivaleggiato con le burocrazie nell'uccidere qualunque prospettiva vera all'utopia. Ma, in fondo, goffamente e stupidamente, spesso criminalmente loro cercavano lo stesso bisogno e sono quindi, che ci piaccia o meno, sostanzialmente nostri fratelli. Come i teppisti dei vostri personaggi. Allora siamo svuotati perchè abbiamo sbagliato a inventarci delle bandiere rosse da seguire e delle vetrine molto immaginarie da tirar giù, o ci siamo sognati l'Oriente rosso e abbiamo scritto sui muri perchè cercavamo di reagire allo svuotamento? C'è differenza fra la nostra immaginazione al potere e il casino puro e semplice della V C?

Sto continuando a scrivere nella direzione che volevo saltare. In realtà i contenuti non contano poi molto. Facendo quello spettacolo non mi hai dato qualcosa per via della storia dei ragazzi a scuola. In fondo è una storia un po' stupida, con quegli intermezzi a effetto del professore bello come Gesù che deve arrivare, che non si capisce se si tratti di Beckett o Wojtyla, e non è un espediente troppo onesto. No, quella storia si può mettere in scena diciotto volte senza darti assolutamente nulla. E se qualcuno pubblicasse una bella storia dal Sessantotto agli anni di piombo, io mi guarderei bene dal leggerla, mentre ho appena comprato un album fotografico sulla vita di Kafka, che mi sembra molto più pertinente.

Quel che conta, ovviamente è il modo. Bada, non sto facendo un discorso artistico, nè sto dicendo che con questo spettacolo sei entrato nel cerchio ristretto dei "Grandi Registi Europei", a far concorrenza a Strehler a Ronconi e Stein e Chereau. Non c'entra. Esiste, voglio dire, un modo di far teatro che consiste nel comporre dei segni più o meno tradizionali con il comportamento degli attori (e le luci, i costumi, le scene ecc.). Qualcuno si porta le mani sul viso ed è commosso, alza la voce ed è arrabbiato (o magari l'abbassa moltissimo, perchè i segni funzionano spesso anche all'incontrario). Le'luci si abbassano ed è sera, si suona un valzerino e questo vuol dire che dobbiamo commuoverci. Un tale parla con la voce di testa e dunque è un pedante, che siamo pregati di tenere in antipatia. Eccetera eccetera.

Comunque noi ne sappiamo molto di più degli attori; noi del pubblico voglio dire. Tutta la finzione del teatro in questo senso sta nel fatto che io devo saperne di più dell'uomo che sta sul palcoscenico. Infatti, possiedo i codici esterni di cui ti ho fatto qualche esempio, e inoltre l'autore ha avuto la bontà di far succedere tutto quello che ha importanza davanti ai miei occhi; anzi se qualcosa che conta non si vede, o se mi fa vedere qualcosa che non conta, io mi arrabbio e dico che è un maleducato sperimentatore. Inoltre, il sistema teatrale italiano mi aggiunge la comodità di rappresentare sempre gli stessi drammi, per cui io so benissimo chi è chi, che cosa accadrà, come finirà. O quantomeno mi informo col programma, gli amici, le critiche, le enciclopedie.

Dunque, questo teatro, che è quello di sempre nella nostra cultura, maneggia dei segni. Io personalmente di fronte a questa attività passo dall'educata indifferenza nella situazione media; fino all'insofferenza più somatizzata, alla voglia di sparire in fretta, nella massa dei casi di routine sciatta e svogliata; e fino a un entusiasmo estetico (per esempio nei casi di certi spettacoli di Ronconi e Bob Wilson), che non mi toglie però dalla condizione di estraneità. Alcuni per questa ragione dicono che non mi piace il teatro; e se stesse tutto qui, non saprei dar loro torto.

Il fatto è che qualche volta capita che qualcuno non manipoli dei segni, o meglio non si limiti a manipolarli anche se magari sta chiuso in una rigidissima partitura formalizzata. Una volta pensavo che questi casi diversi avessero a che fare col "parlare di sè"; ma qualche anno di esperienza con giovani, donne, operai, sudamericani, omosessuali, matti ecc. ecc. che parlavano continuamente di sè (perchè alcuni anni fa usava l'autocoscienza) mi ha convinto a diffidare profondamente da questo tipo di cose. Il teatro sul teatro, poi, lo trovo semplicemente allarmante.

Diciamo allora: essere sinceri, che trattandosi di finzione da ripetere ogni sera è una parola che non vuol dire molto. Ma certo che finzione è diverso da menzogna. Etimologicamente finzione è "fictio", che ha rapporti con il verbo fare, lo rafforza e lo sposta. Si tratta dunque di un fare delle cose con se stessi in maniera sincera.

Mi rendo conto che se andassi avanti solo un po' ti trascinerei nel bel mezzo di quella disputa venerabile sulla sensibilità e l'immedesimazione dell'attore, fra Diderot e Stanislawskij, passando per Brecht, Artaud e chissa chi. Non è il caso.

Parliamo allora dell'Elfo. A me gli spettacoli dell'Elfo, in genere, hanno sempre dato un po' fastidio per il discorso che ti ho appena fatto. Spesso attuali di contenuto e condividibili come argomentazioni di fondo, erano però per me spaventosamente manieristi, rappresentavano un modo particolarmente perverso di manipolazione di segni teatrali. "NEMICO DI CLASSE" da questo punto di vista è una grande rottura. Non perchè sia realista: simbolismo e realismo non c'entrano. Piuttosto è per l'appunto sincero. Tanto sincero da permetterti di guardarlo come certe volte in campagna puoi guardare l'agitazione di un formicaio, magari dopo averlo malignamente calpestato per dare lavoro alle formiche. C'è della gente di fronte a te (parlo sempre da spettatore) che fa qualcosa. Molto banalmente finge.

Ti dice di essere studente e magari di avere i genitori ciechi, e questo non è vero. Non ti parla dei problemi di un attore dell'Elfo. Ma dentro quel che fa mette un'energia e una motivazione autentica. E, soprattutto, fa qualcosa di reale, non produce solo delle apparenze. Quando guarda da una parte, la vede, non si limita a voltare la testa. Quando muove un tavolo, ci mette l'energia giusta. Quando si arrabbia, almeno un po' si arrabbia davvero. Quel che fa gli dice qualcosa, e così è per noi. Dopotutto, nella vita quotidiana siamo addestrati molto bene a riconoscere le maschere portate sul serio da quelle con cui si sta solo giocando. Che si portano sempre delle maschere, per tutta la vita, l'ha scritto un grandissimo sociologo del quotidiano, Erwin Goffmann; e prima di lui il più grande riformatore vivente del teatro, Jerzy Grotowski.

Difficile parlare di Grotowsky a partire da uno spettacolo così punk o post, mi hanno detto. E invece c'entra, perchè alcune ricette importanti del tuo lavoro vengono più o meno di lì. Il tempo reale, lo spazio aperto non all'italiana, la partitura degli attori che precede il lavoro sul testo, perfino un certo gusto per l'energia forte dello spettacolo, il teatro come luogo di celebrazione del conflitto. Ti manca certo il suo gusto del paradosso, la sua sapienza visiva, la cultura, la genialità blasfema dei polacchi. E coi tuoi attori hai lavorato qualche mese, non molti anni. Ma questo ci ho visto dentro io, che ovviamente è assai diverso da quanto concretamente avrai voluto fare tu. Poco importa, perchè se leggi quello che un grandissimo poeta ha scritto della più grande attrice che abbiamo mai avuto in Italia, giusto ottant'anni fa, è di nuovo la stessa cosa: "Questa donna patisce i dolori del nostro tempo più di qualsiasi altra creatura e in modo più sublime. Anno dopo anno, di paese in paese, essa continua ciecamente – come acqua che di roccia in roccia cade. Il suo arrivare e sparire è conturbante come lo spettacolo di una procellaria ferita che barcolla sulla tolda affollata di una nave. E’ la creatura più famosa e più inquieta della terra. I suoi viaggi sono cortei trionfali e assomigliano a una fuga... Ritorna e non è la stessa; e nuovamente si allontana da noi per scendere in acque che perennemente mutano. Eppure è stata qui. Abbiamo sentito la vicinanza di una indefinibile violenza tragica, di un'anima sublime afflitta da dolori più grandi di quanto siano capaci di sopportare le creature che ella interpreta. Le creature interpretate dinanzi a noi erano soltanto le schiave che vengono bruciate ai piedi del rogo reale. Lassù, però, in alto fra le medesime fiamme si dissolveva il corpo di una dea. Mentre era in scena e recitava, più che in ogni altra occasione, avveniva qualcosa di più grande del destino di quei personaggi, qualcosa di più totale, di una totalità così sublime da essere assai affine alla vita tragica d'una musica eccelsa. Mentre era in scena e recitava, questa volta più di qualsiasi altra abbiamo dovuto chiederci: non esiste più il teatro? Ha forse cessato di vivere per noi? Con tutti i suoi grandiosi edifici, le sue mille luci, la sua realtà apparentemente così grande, ciò che noi chiamiamo teatro non ha forse cessato d'esistere come forza spirituale, come potenza su di noi?".

Scusami la citazione così lunga (che viene dai "SAGGI ITALIANI" di Hugo Von Hofmannstahl, Mondadori, 1983). Ma il problema sta tutto qui. Certo, non si può tutti essere la Duse, anzi oggi non lo può nessuno. Il teatro però vive per questi momenti in cui si annulla, dissolve la propria trama di segni e di menzogne e arriva ad altro. Se no, funzionano molto meglio tecnicamente ed economicamente il cinema, la televisione. E in genere i libri sono più istruttivi.

Ecco dunque quella questione del modo in cui si parla delle cose a teatro. Che non vuoi dire "bene" o "artisticamente" o più spesso "banalmente", ma con o senza qualche scintilla di quel rogo a dare luce, con o senza la forza di chi lo fa per prendersi sopra di sè un rischio non solamente tecnico o economico.

Mi rendo conto che ho dato solo accenni confusi di questa condizione e non una definizione o un'analisi tecnica, che forse non è possibile. E riconosco anche che questa è una voce "da giù", da spettatore, in definitiva da parassita o da vampiro, se vogliamo esagerare. Ma credo di sapere, nella maggioranza dei casi, che saremmo d'accordo nell'identificare gli episodi concreti in cui questa condizione si verifica. Anche perchè è molto rara. In questi casi a me spettatore dunque non resta solo amore, o divertimento, o simpatia; mi rimane un gran vuoto dentro, un silenzio, una consapevolezza chiara e limpida, come se lo spettacolo mi avesse fornito occhiali migliori per vedere me e gli altri. E in questa condizione calma e oggettiva, mi resta un sentimento: la gratitudine.

E’ in nome di quella gratitudine che ti saluto, e ti prego di salutare i tuoi compagni della V C. Parlando con te ho parlato anche a loro.

Ti abbraccio

Ugo Volli

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...LA STORIA CONTINUA

Sono passati più di otto mesi da quando ho scritto le prime note a questo programma.

Dal 14 febbraio ad oggi ricordo alcuni momenti di forte emozione. Le repliche di Modena e l'ultima di Bologna, con registrazione video del mio collasso in scena, sul finale per fortuna, e gli applausi interminabili.

Ma soprattutto ricordo la prima di Milano, un appuntamento atteso, una verifica dal sapore di prova inappellabile. Entriamo in scena quel 3 marzo quasi con l'idea di sfidare il pubblico, di superare il gelo iniziale con una violenza ancora maggiore di quella delle repliche precedenti. Ma lo spettacolo ci prende, bastano poche battute per dimenticare che è una prima, che è Milano. E le ultime scene uniscono noi e il pubblico in uno sforzo quasi fatto insieme, in un silenzio attentissimo che sfocia in un applauso così caloroso da coglierci di sorpresa.

Due giorni dopo sui giornali troviamo scritto che abbiamo le carte in regola e il clima diventa euforico.

Da allora ogni replica ha la sua storia, ogni personaggio segue l'evoluzione dell'attore che se lo porta dietro. A fine marzo Maurizio Scattorin ci deve lasciare, ma ci fa un regalo inaspettato: proprio nelle ultime tre repliche trova dei toni per il suo professore che sorprendono prima noi che il pubblico.

Lo sostituisce Mario Ventura che, pur restando solo pochi giorni, vivrà con noi l'esperienza della più bella replica in assoluto di "NEMICO DI CLASSE" in aprile a Udine, la seconda sera. Verso il finale un piccolo incidente ci costringe a ridisegnare in pochi secondi la mappa dei rapporti in scena. L'intesa fra noi è totale: il pubblico percepisce la fortissima tensione e la moltiplica.

Nelle repliche successive tenderemo a quel risultato, ma dovremo aspettare l'estate per riprovare le stesse sensazioni.

Finite le repliche, a fine aprile, la strana sensazione di vedere, tutti piazzati in prima fila, il "KLASSENFEIND" della Schaubühne ospite del Parma Teatro Festival, "l'originale di Stein" come diceva qualche spiritoso che minacciava il crollo dell'immagine del nostro a confronto con quello.

Più di tutto temevo l'impressione degli attori nel "vedersi" e nel vedere il Fetzer di Ernst Stötzner, confrontandolo mentalmente con il mio Iron. Ed è stato bellissimo invece: fermarsi poi a parlare con i nostri doppi fino all'alba, la rabbia di non potergli far vedere nemmeno un video, la certezza che il paragone non svantaggia né l'uno né l'altro spettacolo: ognuno proiettato nella sua dimensione, nella sua città, nella sua lingua nella sua violenza.

E poi viene l'estate, che segna una pausa per "NEMICO DI CLASSE" ma non per l'Elfo, impegnato contemporaneamente nella produzione del "FAUST GAME" di Cristina Crippa e nel film "SOGNO DI UNA NOTTE D'ESTATE" di Gabriele Salvatores.

Ma un appuntamento c'è anche per la VC: il Festival di Santarcangelo vuole "NEMICO DI CLASSE" per due repliche straordinarie. Alcuni di noi lavorano in quel periodo in altre compagnie, ma alla fine riusciamo a metterci insieme.

E per di più c'è un nuovo professore, Bruno Olivieri, un vecchio amico che modificherà parecchio il tipo di autorità con cui si contrappone ad Iron e ai suoi: meno eroe e più cinico questo supplente, come chiamiamo ormai noi i nuovi professori avendo seguito il destino della scuola italiana e avendone cambiati tre in otto mesi.

"NEMICO DI CLASSE" ora è richiesto. Eravamo partiti con le prove nel carcere minorile di Milano sperando di arrivare a fare qualcosa di almeno interessante e ci siamo trovati tra le mani uno dei casi teatrali della stagione, e addirittura uno spettacolo di successo. Proprio al carcere minorile, a quel Beccaria incubo delle nostre mattine (come la scuola a sedici anni) con le prove fissate masochisticamente alle nove, voglio rivolgere l'ultimo pensiero. A quando siamo ritornati dopo Pasqua laggiù per fare "NEMICO DI CLASSE" nella palestra e all'emozione di certe battute che assumevano un peso molto diverso in quel luogo e per quel pubblico. Quegli applausi e la notizia che poi i ragazzi del Beccaria hanno rifatto per gioco tutto "NEMICO DI CLASSE" e non si erano dimenticati proprio niente, ci hanno dato il segno della forza di questo spettacolo.

Così, quest'anno portiamo "NEMICO DI CLASSE" in giro per l'Italia: da Roma a Genova, da Torino a Prato, e tutti ci auguriamo che la sua vita non finisca. Perché la cosa veramente bella di questo spettacolo è farlo.

Elio de Capitani
(25.10.83)

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