Nella cruda desolazione della V C, un'aula-prigione di una scuola dell'hinterland milanese, sei «nuovi angeli», sei antieroi dell'odierna emarginazione giovanile in una metropoli del Nord, attendono invano un professore che non verrà mai.
Questo, brutalmente, il nocciolo narrativo di Nemico di classe del trentaseienne inglese Nigel Williams, che il Teatro dell'Elfo propone infine, all'Adua, al pubblico torinese, ad un anno circa dal suo fortunato esordio.
E' un gran bello spettacolo, che non dovete perdervi: per l’amara linfa morale che tutto lo percorre, per l'originale impostazione registica e la risentita espressività degli interpreti.
Sul piano etico (questa non è tanto una commedia di costume, quanto una commedia «devozionale» profana, con tocchi di emozionalità naïve ed un'ombra, non più che tanto, di nera sacralità rituale) Nemico di classe è la radiografia di una solitudine esistenziale senza scampo: privi di retroterra e di futuro, questi Iron, Angel, Cabriolet, Vicks, Marrakesh, Ciù-Ciù sono dei precocisslmi morti-vivi: abbandonati a se stessi sin dalla nascita, distruggono tutto perché non posseggono nulla: nulla dentro, voglio dire, nulla per cui lottare, in cui credere.
Non è un caso che, quando non rissano, si tengano l'un l'altro derisorie lezioni, scampoli di un autentico psicodramma sull'angustia soffocante del loro «vissuto» quotidiiano: il sesso molto vagheggiato e mal praticato, la cucina e il giardinaggio, la violenza su persone e cose: e l'oscuro terrore dell'altro da sè, che qui assume le consuetudinarie fattezze del «terrone», causa prima ed effetto ultimo d’ogni dissipazione sociale. Proprio l'inserimento di questa variante vistosa rispetto all'originale inglese (in cui si discute di negri) ci consente d'accennare alla traduzione-ricreazione del testo, da parte di Elio De Capitani ed Elisabeth Boeke, che è parte integrante ed attiva dello spettacolo: un adattamento minuzioso a consuetudini, persone, luoghi di un’inquieta Milano sottoproletaria suburbana e il loro «riversamento» in un dettato di elementare ossessivltà e oscenità, perfetto nella litania, mai tradita, degli idiotismi da latrina.
Ma il testo, questo testo scritto nell'atto d'essere tradotto, è, a sua volta, parola e gesto, silenzio ed aggressività dei personaggi. Stavolta la distribuzione, come si dice in gergo, più che in un’assegnazione di ruoli, sfocia in una sconvolgente equivalenza antropologica, a partire dalle caratteristiche somatiche (il plccoletto pustoloso, l’astenico denutrito) giù giù sino alle scelte dialettali (che svariano dal milanese all'emiliano al «terronlco»).
Tuttavia — questo è il punto-forza dello spettacolo – non c'è nulla di mimetico in quest'equivalenza: essa non è un dato, ma un risultato raggiunto non per via di verisimiglianze di stampo naturalistico. I sette bravissimi giovani interpreti (il settimo è un fantasma di supplente) riescono al contrario ad imporci una loro misura di realismo secco e pungente, che alle sequenze più tese ed esasperate ha qualcosa di astratto, l'astrazione di un incubo ad occhi aperti.
Sarei tenuto a parlar d’ognuno, per esteso: vorrei citarli tutti almeno di passata: il De Capitani, cui va, oltre alla difficile impresa registica, il merito di tratteggiare un Iron di violento ribellismo; il Bisio, incerto tra aggressività e tenerezza; il Rossi, che mette stizza e malinconia impotente nel suo Ciù-Ciù; il Bini, il Catania, il Filocamo, l'Olivieri, ciascuno a perfetto agio nel proprio ruolo.
Alla prima dell’altra sera caldissimi applausi.