Una classe: la più schifosa della scuola più dimenticata della città. Ingovernabile, teppistica, violenta, distruttiva, annoiata, inutile, indomabile. Non senza evidente compiacimento per questa condizione «maledetta»: «Quinta ci, ci come cazzo» si presentano. Lavagne sporche, banchi sfasciati, mozziconi di sigarette, uno stereo che ogni tanto suona con fracasso le musiche alla moda, cannottiere, giacconi di pelle, coltelli a serramanico, tubi di ferro, un modo di parlare sfasciato a base di «cazzo» e parole in gergo. Immondizie, avanzi, spazzatura: materiale ma anche umana — almeno cosi mostrano di credere tutti, glielo ripetono i professori e loro se lo dicono volentieri. Dannati della terra, o giovani cui piace sentirsi come tali.
Sono sei. Iron è il capo, il più violento di tutti, quello con la rabbia in corpo, l'intelligenza sarcastica, le domande radicali, il bisogno continuo di imporsi, di distruggere quel che è diverso, la rissa come tentazione permanente (Elio De Capitani). Ciu Ciu è come lui, solo che è piccolo come un cinese, e deve a questo il suo nome; è più vigliacco, dunque, e più epidermicamente violento (Paolo Rossi). Angel è anche lui della razza, ma con qualcosa di infantile e visionario in più, un fondo «buono», incarognito dalle circostanze (Riccardo Bini).
Marrakesh è un «terrone» con l’aria variamente omosessuale, che si diverte solo a sfogare la sua rabbia contro le vetrine del centro; ma in classe è l'ultimo, tutti lo prendono in giro e lui sopravvive solo grazie alla sua tranquilla follia (Sebastiano Filocamo). Viks è uno sempre addormentato, passivo, notevole solo per la fama di «segaiolo» che gli altri gli attribuiscono. Infine c'è Cabriolet. il solo vero antagonista di Iron, che ostenta distacco dai giochi al massacro della classe, si mostra «saggio», parla d'amore e di sentimenti, ma non sembra poi neppure lui tanto convinto di quel ruolo positivo che l’autore ha voluto attribuirgli.
Un giorno succede che la scuola non ha modo o intenzione di mandare in Quinta C un ennesimo sostituto per i molti professori che quei ragazzi hanno distrutto o sconfitto. Tutto il dramma svolge dunque, quasi in tempo reale, il quadro di quell'attesa della classe per il suo prossimo «nemico»: aspettativa prima bellicosa e antagonistica, poi via via più ansiosa e disperata, quasi messianica. Ma quel professore tanto atteso e alla fine «visto» da Angel come «un tipo biondo, bellissimo, con le spalle larghe cosi», non è Godot; come quella classe non è il solito contenitore del teatro anglo-americano degli ultimi decenni, dove la gente si scanna ed espone volentieri le proprie viscere sanguinolente — in totale e «simbolica», privata arbitrarietà. Né, per contrario, quella classe è uno spaccato «realistico» di un'età, di una generazione, di una classe; teatro delle miserie e del disfacimento come se ne è pur visto tanto nel Novecento.
Il fatto è che mentre credono o fingono di aspettare un docente che non arriverà mai, e che vogliono solo perché manca, quei j ragazzi fanno un gioco molto serio: decidono cioè di provare a insegnarsi da sé «qualcosa di utile», che dev’essere evidentemente qualcosa di loro, dato che il principale rimprovero che fanno alla scuola è di non riguardarli, di non appartenere loro. Si tratta insomma di capire perché stanno in quel «buco schifoso», chi ce li ha cacciati, se e come ne possono uscire, che cosa ha più senso in un mondo dove «qualcuno ha deciso che l'oro era finito e ha lastricato le strade di merda...».
E' il problema capitale, la sensazione che sta alla base di reazioni così diverse come le grandi ondate di rivolte giovanili, l'autodistruzione della droga, il radicamento del terrorismo: ci hanno fregato, non c’è niente da fare, non ci sono alleati se non «degli stronzi che sono nemici dei nostri nemici», e forse non c'è niente da fare, non c'è alcun senso in tutta «questa storia di merda».
Naturalmente, in Quinta C la questione non è posta in termini troppo ideologici, e Williams stesso pensa evidentemente di parlare del teppismo giovanile e non di tutti quegli altri argomenti che scottano: i morti, i suicidi, le ideologie, le fughe mistiche, la paura del nuovo, la rabbia e il vuoto di una storia troppo spesso vissuta come postuma. Eppure questo è il primo spettacolo, da molto tempo, che aiuti a capire. Perché c'è dentro tutto: il senso dell'inutiliià e l'emergere prepotente della fame di senso; l'irruzione della soggettività e la sua incapacità di trovare ancora mediazioni, «pazienza»; il bovarismo di questa condizione e la sua radicalità; la rivolta come destino e l'integrazione come tradimento; l'insopportabilità del presente e la coscienza di non poterlo cambiare, doppio legame che condanna necessariamente alla follia collettiva e individuale — unica via di fuga mentale per chi non sopporta di star fermo e non ha l'energia di muoversi.
II testo di Williams, il cui titolo Nemico di classe è molto più di un gioco di parole, fotografa una situazione in cui questo contrasto è già degradato, e secondo modalità molto inglesi, invecchiate anche, mi sembra, di qualche anno rispetto a cui non può avere completo successo l'intelligente calco milanese di De Capitani regista e traduttore. Ma è chiaro che il problema è ancora quello, e che da questo nodo, inevitabilmente bisogna passare, per comprenderli e comprendere.
Lo spettacolo del Teatro dell'Elfo mette in evidenza questi problemi con maggiore (e posteriore) lucidità rispetto al copione. Interpretato da giovani per cui forse non quelle forme ma quel problema è vero, costruito con un lungo processo di interiorizzazione delle parti, «non recitato», ma fortemente vissuto in uno spazio a pianta centrale con illumuiazione costante, tempo reale, musica solo interna agli eventi scenici, senza trucchi scenotecnici, con una lingua e un modo gestuale aspro ma non folkloristico, decisamente «vero», senza concessioni alla dizione, alle convenzioni teatrali, al buon costume, questo spettacolo prende con una violenza sconosciuta sulle nostre scene, chiama a rendere testimonianza di un dramma che ci contiene, espone gelidamente alla disperazione, alla rabbia, all’insensatezza.
Quelle lezioni di giardinaggio come atto d'amore, di odio irrazionale e consapevolmente demenziale contro i «terroni», di distruzione delle vetrine come rabbia dolce e folle, di sesso ridotto a mito vuoto, di cucina e pazienza, di rabbiosa e violenta autodifesa; quelle lezioni assurde e patetiche ce le siamo fatte tutti quanti, in un modo o nell'altro, in linguaggi più o meno mediati. Vedercele di fronte, sincere e inutili, vedere nella luce abbagliante quegli scontri stupidi e quei riti inutili, quel vuoto di senso restituito onestamente. direttamente, senza retorica, è uno choc. Uno di quei rari momenti in cui il teatro è di nuovo esperienza condivisa, rappresentazione collettiva, riflessione che ti cala dentro dall'esterno, ma parla di te, fa male.