La campana suona, le lezioni sono finite. Dai corridoi pervengono, soffocati, il brusio delle chiacchiere e lo scalpiccio dei piedi di chi si affretta verso l'uscita. Solo dall'aula della Quinta C non esce nessuno. Come raggelati per incanto, in mezzo ai resti dei banchi, dei tavoli, delle sedie, degli sgabelli che loro stessi sono andati distruggendo con barbarica furia, immobili se ne stanno Iron, Cabriolet, Angel, Ciu-Ciu, Vicks, Marrakesh, sudati scarmigliati sporchi, usciti da poco da una lotta selvaggia. Ma forse quest'aula della Quinta C è un girone d'inferno e i suoi abitatori sono dei dannati che domattina saranno costretti a ricominciare la loro rivolta, il loro rito di rabbiosa attesa. Attesa di un altro Godot che non arriva.
Parlo di Nemico di classe di Nigel Williams presentato martedì sera dal Teatro dell'Elfo al Fabbricone, dove verrà replicato fino a domenica: uno spettacolo che emerge, per la sua violenza allucinante, per la sua crudezza di linguaggio e di gesto, per i suoi significati (parlo di significati e non di simboli, sia chiaro), e con i suoi rimandi a una non fotografica realtà, emerge, dicevo, nel quadro di una stagione teatrale composta di testi abbastanza prevedibili. Aggiungerò che la violenza verbale e gestuale alla quale ho accennato è di continuo temperata da una vena di sarcasmo e di umorismo nero capace di far germogliare almeno il sorriso se non addirittura la risata liberatoria.
Non sarebbe difficile, intendiamoci, trovare ascendenze e parentele a questo testo; ma è indubbio che Williams ha dotato i suoi personaggi di una propria autonoma vita, con tutte le contraddizioni, le deluse speranze, i fermenti ribelli di una giovinezza che dinanzi a sé ha il buio e alle spalle un ostile silenzio e che non ricorda ma guarda al presente e al futuro con rabbia. I sei fanno pensare a una ciurma ammutinata che minacci di sbranare chiunque si azzardi a tentar di ricondurre l'ordine e al tempo stesso aspetti l'arrivo di chi, comprendendo le istanze più segrete dei rivoltosi, rechi loro una parola di luce.
Iron, il «duro» della situazione, nella sua veste di capo autoelettosi tale, incita i compagni a una distruzione continua che non è se non il transfert psicologico di un'autodistruzione in atto. Cosa tendono a dimostrare questi sei reclusi se non il loro essere vivi a dispetto di tutto e di tutti? Non avendo altro mezzo per raggiungere tale scopo agiscono in negativo, preferiscono l'azione inutile all’inerzia soffocante. Affermano di non attendere nulla o nessuno e tuttavia Angel, di sentinella alla porta crede sempre di individuare colui che porterà il misterioso bagaglio della conoscenza.
Ambientata a Milano per ragioni facilmente intuibili (e il lavoro di adattamento e riduzione del regista Elio Capitani, anche traduttore insieme a Elisabeth Boeke, non è stato facile) la guerriglia fra quattro mura si snoda con un incalzare esasperato, lacerante di voci, suoni, movimenti. Ciascuno dei ribelli è ironicamente chiamato a tenere una lezione: e a contrasto con gli impeti rivoluzionari e barricaderi scaturiscono da questi esseri emarginati singolari sentimenti, fughe nel patetico, salvataggi nelle zone più «borghesi» del loro animo (Ma ci sono pagine di rara forza: il gretto razzismo di Ciu-Ciu, piccolo punk che vede nei «terroni» la causa di tutti i mali sociali, il vandalico infantilismo di Marrakesh che va rompendo vetrine a compenso della propria nullità, il bisogno continuo di musica a volume altissimo di Angel): così l’altro «duro», Cabriolet, riuscirà perfino a parlare d'amore e Vicks si confesserà bisognoso d'amore.
L'amore, una parola che non ha senso per Iron. L'apparizione saltuaria di un professore non è che il riflesso di una autorità che crede di poter avere ragione dei ribelli con l'arma spuntata del disprezzo, arma molto comoda per giustificare l'impotenza a capire. La regia di Elio Capitani (che avrebbe forse potuto sforbiciare il testo senza troppo danno) è di rara forza e di squillante sicurezza. Una regia — la definirei — nata assieme e per gli attori.
Se il Capitani stesso impersona Iron con la sua crudeltà sottile, con il suo cinismo malato e con la sua forza fisica in maniera esemplare, ho trovato eccellenti i singoli interpreti, da Claudio Bisio, un Cabriolet lucido, coraggioso, beffardo, intelligente, a Riccardo Bini, un Angel tutto preso dalla musica e dall'idea (immatura) del sesso; da Antonio Catania, un Vicks parco di parole, ma non perciò meno eloquente, a Paolo Rossi, un inimitabile Ciu-Ciu di straordinaria efficacia; da Sebastiano Filocamo, squisito Marrakesh di acuta fattura, a Bruno Olivieri, il professore, sostenuto e pavido, insultante e vacuo. Anche se non coadiuvata dall'acustica del Fabbricone, hanno dato tutti una prova che colloca Nemico di classe fra i migliori spettacoii della stagione. Applausi a non finire.