Il “Midsummer day”, in Inghilterra, è il 24 giugno, giorno di San Giovanni, e la notte di quel giorno, la “Midsummer night”, è consacrata alle stregonerie e ai prodigi ed è popolata da spiriti, folletti ed elfi non sempre benevoli.
Se la notte del 24 giugno, quindi, vi trovate in Inghilterra, non aggiratevi per i sentieri delle chiese, né nelle vicinanze di cimiteri e non sostate sui crocicchi. A meno che non siate amanti di cose occulte e, soprattutto, in grado di controllarle.
I quattro giovani protagonisti della storia di William Shakespeare si trovano, invece, in quella notte (dopo essere scappati di casa per contrasti con i genitori), da soli in un bosco alle prese, oltre che con i suddetti spiriti e stregonerie, anche con quello che è universalmente considerato il più terribile dei prodigi: l’amore. E senza avere la minila possibilità di controllare la situazione.
I “fairies”, gli spiriti di cui parla Shakespeare (ma li chiama anche ombre, creature della notte, visioni) vivono di notte e amano confondere sogno e realtà giocando con i desideri e i sentimenti dei protagonisti di questa storia.
Che è una storia d’amore. E non certo d’amore platonico, ma d’amore contrastato, a volte violento ed improvviso, sempre sconvolgente nel senso di disgregatore di equilibri e di equilibrati sensi della realtà, di convenzioni sociali e di faticose razionalità costruite dopo una lunga lotta con la parte più oscura di noi.
Ed è grazie all’invenzione poetica di un prodigioso fiore – quello che le ragazze chiamano “love-in-idleness”, fiore dell’amore futile, che ha il potere di farti innamorare all’istante della prima persona che ti capita sotto gli occhi – che Shakespeare è in grado di eliminare tutti i preamboli razionali dell’amore e dell’innamoramento: niente corteggiamento, niente discorsi, niente parole studiate, solo un incredibile, rapidissimo, incontrollabile desiderio profondamente immotivato.
Il “Sogno di una notte d’estate” è la storia di quattro ragazzi ricchi e ben educati alle prese con questo tipo di amore.
Questi quattro ragazzi appartengono al primo dei tre livelli drammaturgici che si intrecciano nel corso della storia: quello della normalità, del giorno, della luce, della razionalità. Fanno parte di questo livello anche Teseo, Duca di Atene, e Ippolita, Regina delle Amazzoni, due signori che hanno litigato e combattuto e guerreggiato per molto tempo e che, siccome appartengono al livello della razionalità, decidono un bel giorno di smetterla e di sposarsi: è una maniera anche questa di usare l’amore.
Ad un secondo livello, diametramente opposto al primo, quello dello straordinario, della notte, del buio, dell’irrazionalità, appartengono altre due regali figure: Oberon, Re degli Elfi e Titania, Regina degli Spiriti, due personaggi che non smettono di litigare, combattere e guerreggiare a causa di un ragazzino indiano di cui entrambi sono innamorati: è un’altra maniera di fare l’amore questa, non meno comune, basata sulla gelosia, sul desiderio, sulla lite.
In un terzo livello – comico e con funzione fdi contrappunto, ma anch’esso percorso da aspirazioni e desideri inconfessati e frustrati – si colloca il “mostro” Bottom, un tessitore che insieme ad altri amici artigiani, ha deciso di mettere in scena una commedia per le nozze di Teseo e Ippolita e, naturalmente, va a fare le prove di questa commedia nello stesso bosco abitato dagli spiriti e percorso dai ragazzi, in piena notte, e che conoscerà, fra le braccia di Titania, un amore certo non di tutti i giorni.
E ancora c’è un’altra storia d’amore, nel “Sogno”, che riprende, comicamente, il tema dell’intera vicenda: quella raccontata nella commedia che gli artigiani mettono in scena, la storia di Piramo e Tisbe.
Dei due primi livelli drammaturgici, quello del giorno e della razionalità e quello della notte e dell’irrazionalità, si sono, spesso, date interessanti e diverse interpretazioni: l’uno come specchio dell’altro, Oberon e Titania come doppi di Teseo e Ippolita o, meglio, Teseo e Ippolita che sognano di essere Oberon e Titania.
Tutti i personaggi, allo spuntar del sole, affermano di aver sognato, anche Titania, anche Bottom che vuole, addirittura, inserire il suo “sogno” nella comemdia che metterà in scena con gli altri artigiani. Tutti negano le loro esperienze d’amore in quella notte, tutti vogliono tornare alla normalità.
Per lo spettacolo del Teatro dell’Elfo abbiamo scelto di guardare con un occhio particolare alla storia dei quattro ragazzi che scappano di casa, anzi di guardare l’intera vicenda con i loro occhi e di mantenere perciò separati i due mondi del giorno e della notte. E se il primo mondo è quello della realtà di tutti i giorni, il secondo è, senz’altro, quello dei desideri inconfessati, delle pressioni che ci fanno paura, dell’irrazionale che ci spaventa, dell’ “inquilino segreto” che ognuno di noi si porta dentro. E’ la notte, il buio, il mondo degli Elfu e degli Spiriti che “inseguono questa oscurità come un sogno”… “eterni sposi della Notte dalle ciglia nere”… “in volontario esilio dal regno della luce”…
Era comunque necessaria un’operazione di riscrittura per adattare il testo di Shakespeare alla struttura di un “musical”, ma non volendo perdere neanche una delle intenzioni del testo originale, neanche un’occasione di poesia o di divertimento, neanche una possibile interpretazione o suggestione.
Ho, quindi, riscritto parola per parola il testo di Shakespeare limitandomi ad operare dei tagli, a sostituire a dei monologhi delle canzoni, a dilatare alcune situazioni o a scriverne alcune nuove di raccordo tra una scena e l’altra. Ne è uscito, credo, un testo insieme uguale e diverso da quello di Shakespeare. Uguali sono la struttura drammaturgica, i significati, i personaggi (nella quasi totalità). Diversi il linguaggio, la struttura di alcune (poche) scene. I nomi dei personaggi sono quelli di Shakespeare, i tagli delle loro battute sono miei.
Unica sostanziale differenza dal testo originale è il finale, in cui i quattro ragazzi tornano a casa. In Shakespeare, Teseo il Duca decide di far sposare i ragazzi secondo il loro volere e non secondo quello dei genitori, creando così un lieto fine in cui tutto ritorna in armonia. Nel nostro finale, invece, i protagonisti, pur di tornare a casa, si sposano secondo gli ordini dei genitori, creando così una fine più amara, in cui tutto torna alla normalità. Ma perché creare un musical dal “Sogno di una notte d’estate”?
Qui il discorso si fa sottile. Come abbiamo visto, il testo parla dello scontro tra due mondi, quello razionale-apollineo e quello irrazionale-dionisiaco o, meglio, delle reazioni di quattro giovani che passano dall’uno all’altro di questi mondi.
La musica è da sempre vicina a Dioniso, con la sua comunicazione non-verbale, ritmica, istintuale. La musica è insomma, tra le arti, quella più vicina all’irrazionale, al sogno e alla magia; ed ecco che, nel nostro spettacolo, ha funzione magica ed evocatrice. Non a caso è la parte centrale, quella ambientata di notte, quella degli Spiriti, che è più densa di canzoni e di numeri musicali, non a caso sempre, quando si canta, si parla di desideri, di sogni o di visioni.
Musica come magia e danza come magia. La magia di movimenti non quotidiani o di movimenti quotidiani inseriti in un contesto teatrale, la magia dello stesso movimento ripetuto a canone (con sfasature di ritmo) o dello stesso movimento eseguito contemporaneamente da più persone: una magia “teatrale” costruita artigianalmente, giorno per giorno. Ho chiesto alla scenografa Thalia Istikopoulou un luogo unico per la scena. Non un palazzo e un bosco, ma un palazzo in cui, di notte, entra un bosco: e così, dalle porte e dalle finestre di questo palazzo rinascimentale entrano di notte, rami e radici, teste di animali si sporgono a scrutare l’interno della sala, e l’armonia diurna delle chiare tinte pastello, viene sconvolta, di notte, da un universo cromatico dissonante.
Gli Elfi che entrano in questo palazzo invaso dalla natura circostante non hanno ali di tulle, né antenne da farfalla, ma hanno gli occhi chiari e arrossati di chi vive di notte, e i capelli arruffati. Ferdinando Bruni ha disegnato per loro abiti normali incredibilmente acconciati o pezzi di biancheria intima o vestaglie e sottovesti e calze bucate. E loro hanno la testa piena di sogni e le mani piene di terra; e sono romantici e disgustosi, nudi e introversi, dispettosi e ingenui.
Così, senza forzature, dolcemente, con amore e con molto rispetto per l’originale, uno dei capolavori del teatro di prosa è diventato uno spettacolo musicale.
Ne è nato, credo, uno spettacolo alquanto atipico, che affonda le sue radici nella prosa e che da essa trae nutrimento e ispirazione per la ricerca e la presentazione dei personaggi, per la sua stessa struttura drammaturgica, per la confezione delle scene, ma che si serve ampiamente della musica e della danza per raccontare la sua storia.
Se di musical, quindi, si può e si deve parlare, dato che la musica costituisce almeno il 40% dell’intero spettacolo, se ne può parlare, credo, senza riferimenti ai tradizionali esempi di messa in scena di musicals più o meno famosi, ma considerandolo come un tentativo diverso di unire la musica al teatro.
Gabriele Salvatores