L’interesse di «Die Antigone des Sophokles», scritta fra il 30 marzo e il 12 aprile 1947, rappresentata per la prima volta allo Stadtheater di Coira, in Svizzera, nel febbraio 1948 con la regia dell’autore, è in primo luogo, a mio parere, di natura linguistica. Più che in altri adattamenti di classici (Shakespeare, Molière, ecc), Brecht rispetta non solo il testo sofocleo, ma la stessa traduzione tedesca di Hölderlin, che secondo i principi romantici dava eroico spicco all’atteggiamento libertario della protagonista. Il significato, le metafore e persino le parole di Hölderlin vengono conservate, mentre inserti e aggiunte di Brecht, in versi irregolari e non rimati, si mimetizzano perfettamente, quanto a stile, con il resto.
Quello che cambia è il tema di fondo, quindi la finalità che l'opera si prefigge. Non più l’esaltazione dell’imperativo etico, che sovrasta ogni atto umano, la personificazione in Antigone della volontà degli dei, quale esecutrice del Fato: ma la contrapposizione dei diritti del singolo all’autorità che tende a wschiacciarli, ad annullarli nella cieca obbedienza alla generale «ragion di Stato». Contemporaneamente viene introdotta la condanna della guerra e delle sue atroci conseguenze, che appunto provengono dalle scelte dei capi e dalla loro sete di potenza.
La visione sofoclea è essenzialmente religiosa, quella brechtiana è politica. Nella sua versione della tragedia, Antigone è l’opposizione popolare al regime imperante, secondo i presupposti dell’ideologia marxiana: colei che si batte contro la tirannia – e l’ingiustizia sociale che ne deriva – senza piegarsi a compromessi, senza odio (dice a Creonte: «Non per l’odio, per l’amore io vivo»), cosciente fin dall’inizio di dover sacrificare se stessa ed i suoi cari per non piegarsi, per non arrendersi al precipitare, del resto ineluttabile, degli eventi. Il tiranno dovrà prima o poi cedere, dopo aver perso i suoi figli: quando credeva di aver vinto, il nemico gli piomberà addosso a compiere la sua vendetta. E’ la logica perversa, spietata, disumana, della guerra.
Brecht reagisce soprattutto all’assurdità dell’evento bellico. In tutta l’opera batte e ribatte sul concetto che la guerra è una questione privata dei reggitori di popoli e dei loro accoliti, non certo della gente qualunque: una questione per giunta determinata da ragioni abiette, l’avidità di bottino. Si pensi all’epoca in cui fu composta l’azione scenica: era appena finito il secondo conflitto mondiale. E’ evidente che Tebe e Argo diventano Berlino e Stalingrado, Creonte richiama Hitler; e Antigone, di front alla rabbia nazista, è solo il segnale che il mondo, per salvarsi, deve cambiare.
Un’altra celebre Antigone, quella di Anouilh, è del 1942. Ma con lei, in pieno clima esistenzialista, è il regime del paternalismo borghese, la sua quieta difesa di un ordine sociale al quale ognuno deve adattarsi, che la protagonista combatte; Antigone per Anouilh è una piccola, nervosa, fragile donna che ha il coraggio di dire «no» in nome dell’anarchia individuale, del diritto del singolo ad essere «diverso»
Per Brecht, Antigone è una fra i tanti; è l’umanità che non vuole coercizioni, che non delega nessuno a decidere per sé. Per questo, come osservavo all’inizio, l’operazione linguistica all’interno del testo sofocleo è interessante. Brecht mantiene intatti la struttura del capolavoro greco, il suo ritmo solenne, la sua sacralità, semplificando solo un poco dove l’allusione al culto degli dei antichi era troppo costrittiva. Ma, dentro questo contenitore, insinua una diversa concezione della vita. Antigone, non più discendente della maledetta stirpe di Edipo, e quindi vocata all’autodistruzione, è un segno di rinnovamento nella libera determinazione della personalità umana. L’uomo con lei non è più in balia del Fato, come volevano gli antichi, ma è l’artefice del proprio destino.
Sono così tanti i motivi ideologici che ruotano intorno alla figura di Antigone, da autorizzare più di un’interpretazione Questa fiera fanciulla può essere infatti una vittima del dovere, prescritto dagli dei, di seppellire i morti; una rivoltosa contro la tirannia; la sublime testimonianza dell’amore fraterno; un’individualista ad oltranza che non sopporta dettami dell'autorità, giusti o sbagliati che siano.
In primo luogo c’è la regia di brecht, che la propose poi come «modello», come schema di possibile esempio, sia pure perfettibile. Una regia che esplicitava soprattutto la ribellione alla guerra ed ai suoi nefasti strateghi, in un primo tempo con diretto riferimento all’attualità (attraverso un prologo e un epilogo ispirati al conflitto 1939-45) poi ripiegando sull’universale archetipo del testo sofocleo, mediante le sottolineature tipiche del modulo «epico», cioè in tono didascalico, antieroico, con distacco critico. Gli premeva in primo luogo di far capire al pubblico, come sempre, il tema sotteso all’azione drammatica, che è, appunto, «dimostrativa».
Egli lasciò scritto che dava ragione ai greci, soprattutto ad Aristotele, nel considerare importante in teatro solo l’azione, che si esaurisce nel momento stesso in cui viene esperita; l’azione e non divagazioni furovianti, tipo «vagabondaggi di vario genere nel regno della psicologia, o in altri». Un’azione, proprio come volevano gli antichi teatranti ellenici, indicata, narrata, lamentata, esaltata, più che agita. Vale la «dimostazione», ripeto: la contemplazione dell’azione perché se ne intenda il significato, non la sua mera fattualità, la valenza fisica. Non importa insomma quel che avviene, ma il ragionamento su ciò che è avvenuto e viene dibattuto sul palcoscenico.
Veniamo ai giorni nostri. Brecht suggerisce una tecnica rappresentativa: come renderla? Il povero Fulvio Tolusso, nel 1964, si provò a ripeterne fedelmente i canoni, seguendo le note e le descrizioni dell’«Antigonemodell» lasciate da Brecht. La sua fu, se la memoria mi soccorre, una versione che scavava accuratamente nella parola, riducendo al minimo i gesti.
Il contrario ha fatto e sta facendo il Living Theater, che punta, con ritualità espressiva, ad evidenziare una parabola sulla degenerazione del potere; e si avvale di tutto un ampio apparato gestuale, liberamente condotto, «dicendo» più che «recitando» i versi, talora ricavandone originali effetti sonori. In complesso, ho il sospetto che ne venga fuori più Sofocle che Brecht; l’antico mito anziché l’adattamento moderno.
Un’impressione analoga mi fa la messinscena di Marise Flach con la compagnia del Teatro Stabile. Nella dizione, non c’è ombra di sdoppiamento brechtiano fra personaggio e attore; c’è, piuttosto, una forma declamatoria, che fa pensare all’aulicità classica, come d’altronde le stesse suggestive maschere ideate da Mauro Francini, i panneggi austeri dei costumi e l’adozione dei coturni (per Creonte e Tiresia). Di brechtiano, semmai, è rimasta l’abitudine di far restare in scena gli attori anche quando non recitano, in uno spoglio e antirealistico «teatro nel teatro». La Flach ha curato con estrema perizia, com’era lecito attendersi da lei, i movimenti del corpo; senza inutili ricerche di effetto ma con sobria precisione, proprio quella che mancava nell’«Antigonemodell» come rivelò Brecht («nel settore della mimica gli attori si comportavano per così dire empiricamente…»). In taluni momenti dello spettacolo, l’atteggiarsi degli interpreti ha dello statuario, ma senza fissità monumentale che sarebbe apparsa certo stucchevole. Sempre nel settore dello studio d’insieme, mi è parsa assai buona la conduzione del coro, con l’accurata concertazione delle voci. E tutto questo è ancora, in direzione positiva, un omaggio alla compostezza formale, all’«immagine» sofoclea della tragedia. Ma né Sofocle, né tantomeno Brecht avevano fatto come qui di Creonte una sorta di torvo fantoccio che alla fine, quando la sorte gli si rivolta contro, s’affloscia, proprio come se qualcuno l’avesse sgonfiato di tutta la sua ridicola boria.
La dimensione enfaticamente, puerilmente grottesca di Creonte immiserisce il ruolo di Antigone: come si può giungere all’autodistruzione per abbattere un così goffo e maldestro simulacro del potere? Non solo: la sua ingombrante vanità da Capitan Fracassa toglie alla vicenda scenica tutta la tensione, ed anche l’angoscia, l’orrore, la pietà, il trascinante empito tragico. Quando si arriva a parlare dell’eccidio conclusivo, a quei morti, là fuori, non ci bada nessuno.Spenta la tragicità, scompare quel filo di spirito sofocleo che Brecht aveva rispettato , pur piegandolo alla descrizione di una morale nuova, e l’intero spettacolo s’infiacchisce. Probabilmente, si rianimerebbe solo correggendo Creonte, come se in lui tutti i personaggi si rispecchiassero, trovassero il termine di confronto decisivo.
La recitazione risente della riduzione di livello alla quale è stato sottoposto il personaggio-chiave: tutti gli asttori appaiono più eloquenti, quando reagiscono al meglio, che convinti di ciò che dicono; ovvero, fanno rotolare le battute come le biglie di una desueta retorica oratoria.
Fra i giovani e giovanissimi interpreti, mi hanno colpito la sorvegliata scioltezza di Claudio Bisio (Emone) e di Livio Moroni, un Tiresia che Brecht indirizza a guardare con lucidità il presente anziché a vaticinare il futuro. I due attori erano anche parte del disciplinatissimo coro dei «vecchi di Tebe» con Marco Ceso Bona, Daniele Demma e Claudio Rosti. Fra le attrici, meglio come Antigone Claudia Fratagnoli, dalla voce più nitida e scandita, che non Lucia Vasini, più adatta per la dolce figura di Ismene. Massimo Bogliani (Creonte) ha seguito i suggerimenti della regia, mettendoci in più di suo qualche fastidiosa inflessione emiliana. Emanuela Carutti è una efebica, acerba Messaggera.
Essenziale, sull’esiguo palco nel salone di Villa Olmo, la scena di Francini: due rettangoli metallici. Efficace il contrappunto sonoro degli strumenti a percussione, eseguito da Ferruccio Filipazzi.