“I bambini sono di sinistra” è la terza tappa di un lavoro di collaborazione teatral/letteraria iniziato nel ’97 con Claudio Bisio e, credo e spero, non ancora terminato. Un percorso iniziato con “Monsieur Malausséne” di Daniel Pennac (tre anni di repliche), proseguito con La Buona Novella di Fabrizio De André (due stagioni) e sfociato in questo curioso progetto che, almeno quando iniziammo a tracciarlo, era oscuro soprattutto a noi stessi. La genesi ne è la prova, fatta come è stata di chiacchiere, letture, studi, step di scrittura, prove aperte, fino ad una prima edizione “parateatrale” siglata da un titolo che più generico non si poteva: “Appunti di viaggio”. Il tutto con una scheda di presentazione che ben raccontava di un esperimento a quel tempo misterioso ed in parte incosciente (cito a memoria): “Pagine sparse per uno spettacolo futuro… Bisio prova, sperimenta, riflette, diverte e si diverte giocando con una selezione di testi potenzialmente teatrali… un progetto di spettacolo che si fa spettacolo, ecc.
Insomma una accozzaglia quasi cialtrona di scherzose giustificazioni, hatù, airbag, salvagenti, mani avanti.

In realtà mentre i nostri Mr. Hyde lavoravano per nascondere un eventuale disastro, i Dottor Jekill miei e di Claudio tessevano trame per costruire uno spettacolo vero e maturo. Le premesse, in fondo, c’erano tutte. In primis, De André – un poeta cantante che conosce perfettamente la chimica e la fisica delle parole che forse meglio di tutti ha saputo raccontare i nostri tempi.

Dopo “La Buona Novella” infatti il lavoro di esplorazione dell’opera di Fabrizio non era per noi affatto concluso. Avevamo pensato anche a Spoon River, ma presto, su suggerimento di Dori Ghezzi, la nostra attenzione si era rivolta su un altro concept album, forse tra i meno conosciuti di De Andrè ma certo immensamente ricco di spunti: “Storia di un impiegato”.

Poi, altro punto di partenza, oltre alle collaborazioni “storiche” di Claudio con Giorgio Terruzzi e Gigio Alberti, c’era la volontà di incrociare i nostri percorsi narrativi con gli scritti di Michele Serra.

Michele all’epoca era però assediato dal lavoro e presto ci accordammo non tanto per una sua collaborazione al testo con parti originali, quanto con un suo placet generoso e universale per un nostro adattamento teatrale della sua “opera omnia”: dagli articoli, ai racconti, dalle “Amaca” di Repubblica ai più antichi corsivi di “Che tempo fa” per l’Unità. Rimarrà per me indimenticabile un incontro a Genova, quando Serra arrivò all’Archivolto scaricando dall’auto 4 scatoloni di articoli che si era fatto classificare dalla redazione di “Repubblica”: “Fatene quello che volete” disse “tanto non scriverò mai niente di meglio!”

Dentro questo mare di parole, suggestioni, satire, canzoni, utopie e dubbi (30 chili di carta!) partì così il nostro lavoro.

In fondo, qualche riferimento l’avevamo: il post sessantotto malinconico e volutamente bivalente di De André, figlio anche della biografia generazionale mia e di Claudio, e l’oggi di Serra, comico e disincantato, lucido e ormai “adulto”.

C’era anche, nelle nostre voglie, l’interesse ad indagare una modalità narrativa che derivava dal teatro canzone di Giorgio Gaber, insieme alla curiosità di usare le ballate di Fabrizio soprattutto per narrare e molto meno per fare spettacolo o “numero”. In più nella Genova del G8, proprio in quel periodo, avevamo sentito risuonare in corteo l’ “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti” del ’73 che ci ributtava improvvisamente indietro di 30 anni, a recuperare anche criticamente la nostra in/evoluzione civile e politica.

Presto la spina dorsale dello spettacolo in costruzione divenne proprio questa, una sorta di percorso parallelo che un personaggio (giovanissimo nel ’68 e un po’ adulto oggi) progressivamente compie nel giorno in cui si trova a fare i conti con la propria vita. Il copione, a tappe, si costruì perciò come il racconto, quasi un diario, di un uomo dei nostri giorni alle prese con una realtà frammentaria e incoerente, una bizzarra confessione di un personaggio sempre ridicolmente in ritardo rispetto ai mutamenti del mondo, che rimpiange di aver vissuto solo marginalmente la contestazione studentesca e di aver mancato anche l’appuntamento col G8; che rimprovera ai figli di essere soggiogati dalla televisione ma imbottisce il frigorifero di cibo che non riuscirà mai a mangiare e che pur criticando l’insensato teatrino della politica contemporanea non trova di meglio che rifugiarsi nel sogno di una canzone pseudorivoluzionaria. Così di fronte alla caduta di riti, miti e ideologie, la speranza di questo novello signor G si proietta nel futuro, nel potere quasi sacro e purificatore delle lacrime di un bambino, alla ricerca di una speranza e di una purezza ormai per lui perduta.

Sono nati così tra riscritture, tagli, aggiornamenti, incontri con il pubblico (le appendici al libro lo dimostrano) “Appunti di viaggio” prima e “I bambini sono di sinistra” poi, un cocktail di satira e malinconia, realtà e paradosso comico, improvvisazione e sperimentazione drammaturgica. Un tentativo di creare teatro dove teatro apparentemente non c’era (un disco, un articolo di giornale, un racconto), inseguendo una sorta di “teatro della scoperta” che non alleva polvere, che non vampirizza perciò il repertorio consueto ma si muove in un territorio narrativo che cerca di trasformare la pagina scritta in azione, musica, immagine, evocazione e mistero. Un teatro che ama tanti linguaggi (dal cabaret al racco nto arcaico), spesso comici (ultimi rivoli di pensiero ribelle) ma talvolta anche dolorosi e grotteschi. Un teatro che, pur nel clima di eterna fiction che c'è in giro, vuole ancorarsi potentemente alla realtà, che non nasconde le contraddizioni di una società (che poi è quella che proprio noi abbiamo contribuito a costruire) in cui ormai il futuro non appare più come una utopica promessa ma piuttosto come una allarmante minaccia.