Ho volutamente deciso di scrivere queste note dopo aver letto quelle di Giorgio Gallione. Non per copiare ma per l’esatto contrario, cioè per non dire due volte la stessa cosa. Mi sono, come si dice in gergo letterario, “fottuto con le mie mani” nel senso che Giorgio ha detto prima e meglio tutto quello che avrei potuto e voluto dire io.
Fatta questa doverosa premessa alla premessa, posso solo esporre qualche mia considerazione in ordine sparso (e visti i tempi in cui viviamo, vi garantisco non è poco):
1. Il teatro è quasi per definizione lavoro di gruppo. Lo è perché quando gli equilibri sono giusti un regista dà una sua lettura di un testo scritto da un autore che viene interpretato da un attore che agisce all’interno di una scena disegnata da uno scenografo che è illuminata dalle luci di un illuminotecnico e così via coi costumi, le musiche, i movimenti coreografici eccetera. Questa volta siamo andati oltre. Anche il testo è stato il frutto di un lavoro a più mani (dieci, per l’esattezza, o cinque se consideriamo che normalmente si scrive con una mano sola). Con un metodo che in teoria è un non-metodo ma che in realtà, visto che è già la terza volta che Gallione ed io lo applichiamo, forse qualcosa di metodologico ce l’ha.
Si tratta di avere un’idea iniziale e di coinvolgere quanti più talenti si riesce, chiedendo loro di scrivere sul tema una o più pagine entro una determinata data (valgono tutti i mezzi: dai ricatti morali alle pietose scene di pianto, fino alla minaccia di rivolgersi al collega più contiguo e meno amato… di solito è quest’ultimo quello che funziona).
Nel nostro caso il tema era quasi autobiografico e cioè la crisi di un uomo che ha superato i quarant’anni, anzi naviga a vele spiegate verso i cinquanta, qualche rimpianto, le utopie non realizzate, i figli che incalzano col loro cinismo, la paura di invecchiare, insomma, in una parola: l’andropausa (“Andropausa”, altro titolo provvisorio che Gigio nel suo resoconto tanto buffo quanto vero ha dimenticato).
Se sbirciaste le biografie dei cinque autori, vedreste che c’è una radice sociopsicoculturalgeoanagrafica comune.
La parte più difficile è amalgamare il tutto ma lì ci viene in aiuto il teatro, il rapporto col pubblico, le tante letture aperte eseguite sia davanti a parenti e amici che allargate al pubblico pagante che sa di assistere a una lettura, a un lavoro in fieri e proprio per questo accorre incuriosito e complice sapendo di poter condizionare il futuro di uno spettacolo con una risata, un colpo di tosse, un silenzio pieno di commozione, uno sbadiglio, un applauso fragoroso… vorrei a questo proposito citare almeno alcune di queste “anteprime”: Masone, Novi Ligure (prima volta che recitavo nella mia città natale) e il Teatro della cooperativa dell’amico Renato Sarti a Milano. Infine occorre avere il coraggio (e in questo riconosco tanto la mia incapacità quanto la maestria di Gallione) di rinunciare a qualcosa. La sintesi, dono che non posseggo, nella fase finale del lavoro di messa a punto del copione è importante tanto quanto la ricerca iniziale spasmodica e a tutto campo del materiale. Questo è il motivo per cui abbiamo deciso comunque di allegare a questo testo teatrale alcuni brani che avevano superato gli ottavi, i quarti e a volte anche le semifinali.
La soddisfazione più grande che ho avuto rileggendo le bozze del libro è stata quella di non distinguere più le diverse mani che lo hanno forgiato, da qui la scelta di non far apparire in alto a sinistra di ogni pagina il nome degli autori, ma di proteggerne una unitarietà che tale non era ma che dopo due anni di repliche, limature, riscritture, rimpasti e tagli, forse è stata conquistata sul campo. Alla base della scelta di non mettere i nomi degli autori in ogni pagina sta anche un motivo estetico: Hernest Hemingway ha un suono, un’anima, una grafia, un fascino particolari, Fruttero & Lucentini, pur essendo una coppia, altrettanto ma Alberti Bisio Gallione Serra Terruzzi (in rigoroso quanto mendace ordine alfabetico) ci sono sembrati cacofonici e semiologicamente inadatti.
2. La musica. Il libro non suona, ovviamente, per cui è indispensabile quando nel testo entrano in scena le parole di De André, infilare il dvd nell’apposito supporto riproduttore e ascoltare non tanto la mia voce - che al ricordo di quella di Fabrizio impallidisce - quanto la musica, le note di queste ballate scritte trent’anni fa e riarrangiate per noi dal “Quartetto Zelig” (non mi stancherò mai di dire che queste quattro ottime musiciste genovesi si chiamavano così a prescindere dalla nota trasmissione televisiva che mi vede protagonista e quindi non è affatto una piaggeria nei miei confronti ma semmai denota un comune riferimento al camaleontismo del personaggio creato da Woody Allen). Arrangiate, aggiungerei, in maniera egregia soprattutto pensando allo spettacolo e, tanto per far fede al loro nome, con un mimetismo davvero zelighiano. Un esempio per tutti: il commento sonoro al brano che dà il titolo allo spettacolo è ispirato alle prime quattro note del “Ballo mascherato” (fa fa sol fa re) ma dilatato nel tempo e trasformato in nenia per bambini… se non è Zelig questo!
Ma l’osservazione che volevo fare era esattamente un’altra e cioè che ancora una volta rileggendo le bozze come se si trattasse di un libro e basta, mi sono accorto della potenza delle parole di De Andrè anche senza la musica. E se a volte suonano come un apologo, altre come un epitaffio, altre ancora si compenetrano nel testo e sono chiaramente pronunciate in prima persona per poi passare alla terza persona quando alla figlia del nostro “impiegato/impegnato” facciamo dire: “Ma come mai uno che scrive una canzone pacifista come La guerra di Piero poi scrive La canzone del bombarolo?” Bene, per quanto concerne la risposta a questa domanda (fatto salvo che quella vera poteva darcela solo Faber) inviterei a leggere il libro e ad ascoltare il video e in quelle notevoli differenze sta, a mio avviso, il segreto e la magia di due mezzi espressivi (la parola scritta e il teatro) autonomi in tutto, indispensabili entrambi e mai sostituibili.
3. Infine qualche curiosità (quasi gossip) intorno allo spettacolo e ai suoi due anni di repliche. Alcuni membri del consiglio di amministrazione del Piccolo Teatro di Milano protestarono per la scelta di mettere in cartellone al teatro Strehler un titolo così provocatorio e politicamente schierato, al che il presidente Sergio Escobar ricordò loro che I bambini sono di sinistra è una frase presa in prestito non da Toni Negri o da Mao Zedong ma da Gianni Rodari, dimostrando cultura, illuminazione e coraggio. Grazie Sergio.
Non piacendomi il ruolo di perseguitato politico (anche perché non lo sono affatto) voglio (per par condicio) ricordare che Veronica Lario fu tra gli spettatori che risero e applaudirono lo spettacolo. Forza Veronica!
Infine mi piace ricordare l’entusiasmo di Dalia Gaberschik nei confronti dello spettacolo che è stato da lei identificato come prosecutore di quel “teatro-canzone” genialmente inventato da suo papà. Magari!