di Carlo Boccadoro
Il modo migliore di cominciare a scrivere qualcosa del lavoro che ho fatto sulla Buona novella si Fabrizio De André è senz’altro quello di sottolineare ciò che non ho fatto.
Per prima cosa, le canzoni originali non sono state stravolte sino al punto di renderle irriconoscibili; del resto, i pezzi del disco vanno benissimo così come sono, e la loro struttura è sufficientemente flessibile per permettere degli interventi stilisticamente indipendenti senza che questo rovini il tutto.
Non c’è stato poi nessun tentativo di rendere «classicheggianti» le canzoni. Sono contrario ai tentativi che alcuni cantautori fanno per cercare di «nobilitare» le loro canzoni, facendosi accompagnare da strumentisti classici e da orchestre sinfoniche.
Non mi sono infine limitato a trascrivere gli arrangiamenti originali, peraltro ottimi.
Allora in cosa è consistito il lavoro? Nello spostamento di prospettiva operato sulle musiche grazie a un ensemble strumentale di carattere classico (flauto e ottavino, clarinetto e clarinetto basso, quartetto d’archi, arpa, pianoforte e percussioni), all’inserimento di contrappunti non presenti nel disco di De André, e più in generalenell’osservazione in un materiale musicale di origine pop che prende, dopo questo intervento, colori differenti; non necessariamente migliori, solo differrenti.
L’esperienza di compositore classico mi ha portato negli anni a collaborare con musicisti provenienti da mondi assai diversi da quello in cui mi muovo d’abitudine. Ho potuto quindi trattare De André con il dovuto rispetto ma senza esagerare in accuratezze filologiche che forse si prestano meglio a manoscritti antichi piuttosto che al mondo sempre in movimento della musica pop.
Fin dai primi ascolti della Buona novella risulta chiaro che questo disco privilegia in maniera netta i versi rispetto alla musica. Non vi sono né le melodie celeberrime di Via del campo e della Canzone di Marinella, né le sonorità etno-folk di Creuza de mä. Si tratta di un lavoro austero, doloroso, privo di quell’ironia distaccata che è una delle cifre stilistiche principali del suo autore. I testi non lesinano sarcasmo, sparso a piene mani in canzoni come Via della croce e Il testamento di Tito. Abbondano immagini forti, crudeli, spesso violente. A contrasto con questaribollente materia verbale si ha un contorno musicale estremamente scabro, quasi De André non avesse voluto distrarre gli ascoltatori con una musica troppo invadente o subito orecchiabile. I Vangeli apocrifi non si fischiettano davanti allo specchio del bagno mentre ci si rade, sembra volerci dire l’autore. Anche questo voluto ascetismo musicale è stato un vantaggio per me, come avere una lavagna libera su cui scrivere a piacere. Bisognava stare attenti, però, a non riempirlma inutilmente di segni; l’horror vacui è sempre in agguato e in musica è un errore fatale.
Spesso il lavoro è consistito nel togliere musica più che nell’aggiungerla. Talvolta una melodia affidata a due violini (oppure al clarinetto) sposta l’asse della visuale e permette di mettere in risalto un dettaglio che prima appariva nascosto. In alcuni momenti, sotto la recitazione degli attori, ho scritto della musica che nulla ha a che fare, a un primo asoclto, con quella del disco originale, ma che in realtà parte sempre, dal punto di vista intervallare, dalle canzoni per poi allontanarsene, senza però cambiarne il clima espressivo.Proviamo a entrare un po’ più nei dettagli della partitiura.
Nell’incisione del 1970 questo coro è cantato da numerose voci accompagnate da un gruppo d’archi assai nutrito. La musica possiede un carattere maestoso che immette l’ascoltatore in un’atmosfera di grande solennità. Nella produzione teatrale della Buona novella, invece, sono state utilizzate solo le quattro voci dell’ensemble Voci atroci. Era chiaro dunque che non sarebbe stato possibile riprodurre lo stesso effetto, così ho pensato di inserire la melodia del Laudate un poco alla volta, scrivendo un’introduzione strumentale in cui le note del basso ostinato che caratterizzano questo pezzo entrassero progressivamente, quasi senza far notare la loro presenza. Questo approccio più discreto al materiale musicale permette di bilanciare meglio il peso delle voci con quello del gruppo strumentale. Un suono di crotali (percussioni metalliche intonate) dà un sapore festoso all’introduzione, che si svolge su un tappeto continuo formato da un unico accordo sospeso, diviso tra gli armonici degli archi, le note singole dell’arpa, quelle del pianoforte e le fioriture di flauto e clarinetto. Tutte le figure musicali sono realizzate con le stesse note, e le dinamiche aumentano progressivamente tra un intervento e l’altro della voce recitante (Claudio Bisio), fino a giungere a un massimo di tensione che dà il via al coro vero e proprio, che con sole quattro voci ha un sapore madrigalistico e assai meno «colossale» di quello della versione discografica.
Questo brano non fa parte del disco La buona novella, ma Giorgio Gallione ha deciso di inserirlo nello spettacolo non solamente per l’argomento trattato, ma anche per la vicinanza stilistica con le altre canzoni; pur essendo stato composto diversi anni prima, Si chiamava Gesù non crea infatti alcuna discrepanza musicale o testuale con la storia della vita di Cristo.
Una breve introduzione per violino solo è stata aggiunta in modo da permettere a Lina Sastri di fare il proprio ingresso in scena. La canzone è scritta in una tessitura un po’ bassa per essere cantata da una voce femminile, pur fortemente espressiva come quella di Lina; così si è reso necessario un accompagnamento strumentale il più possibile leggero. Per la maggior parte del tempo è il pianoforte ad accompagnare la voce con figure leggere in sedicesimi che saltano rapidamente nei vari registri della tastiera. Su questo continuum pianistico si inseriscono i controcanti del violino e, in successione, quelli di flauto in sol e arpa (solo armonici). Nulla turba la tranquillità della melodia, e anche le dinamiche restano il più possibile ristrette in un ambito assai limitato, creando così molto contrasto col precedente Laudate DominumI.
I primi due brani cantati da Claudio Bisio sono strettamente collegati tra loro dal punto di vista melodico/armonico, e possono essere considerati vere e proprie canzoni gemelle; nello spettacolo, così come nel disco, vengono eseguite una a breve distanza dall’altra.
Nella prima e terza strofa di L’infanzia di Maria, la linea della voce è costantemente intrecciata con la viola, mentre pianoforte e arpa si scambiano figure identiche. Al primo intervento del quartetto vocale («Scioglie la neve al sole…») suonano tutti gli archi, che oltre a sostenere le voci permettono di ascoltare con maggior chiarezza le armonie.
Forti colpi di tamburello introducono all’improvviso la parte centrale, dall’andamento assai più vivace («Guardala, guardala…»), in cui tutto il gruppo suona grandi accordi in fortissimo mentre la percussione si trova spesso in controtempo, creando un effetto di tarantella «sghemba», per così dire.
Nell’ultima strofa sono riuniti tutti gli elementi ascoltati in precedenza (contrappunto di viola cui si aggiunge quello di pianoforte e arpa), mentre nella coda finale gli archi dànno vita a un clima molto più intimo ed espressivo.
Un colpo di piatto cinese introduce la canzone successiva, che anch’essa basa il proprio accompagnamento su un continuo scambio di figure in ottavi tra arpa e pianoforte, supportate dal clarinetto basso e da ampi accordi degli archi; a ogni strofa si aggiunge un intervento solistico: prima il flauto, poi due violini, poi gli altri archi pizzicati. Rispetto al finale di L’infanzia di Maria, questo contiene molte più frasi melodiche, strumentate come un piccolo quartetto per flauto, clarinetto, viola e arpa. Il brano rimane sospeso armonicamente nell’ultima battuta. Ho deciso di non risolvere sulla tonica di do minore, ma di lasciare un sapore più «aperto» con una brevissima frase nel registro acuto del clarinetto che risolve su una nota estranea alla tonalità, incorniciata da intervalli di quinta privi di un vero e proprio senso di risoluzione.
Claudio Bisio è un perfezionista; ha studiato questi brani con grande scrupolo, e quando è arrivato in palcoscenico conosceva già benissimo le canzoni, anche perché avevamo fatto diverse prove al pianoforte. Tuttavia, per qualche motivo che non mi sono ancora spiegato, non si sentiva mai sicuro di questo finale: ce lo ha fatto provare un’infinità di volte. Implacabile, prima di ogni recita arrivava in palcoscenico e diceva: «Dài, proviamo Il ritorno di Giuseppe». Ogni volta veniva bene, ma ogni volta lo abbiamo riprovato.
Un altro brevissimo raccordo dovuto a motivi scenici preannuncia l’inizio del Sogno di Maria: consiste unicamente in una frase del flauto dal carattere orientaleggiante, sottolineata da numerose ripetizioni della nota mi, che anticipano la tonalità della canzone di Maria.
Di tutte le canzoni della prima parte della Buona novella, Il sogno di Maria è quella che ha senz’altro l’orchestrazione più densa. La semplice e innocente melodia cantata da Maria viene imbrigliata in un reticolo contrappuntistico continuo, in cui tutti gli strumenti del gruppo non smettono quasi mai di suonare contemporaneamente. Ho sostituito l’accompagnamento originale di chitarraaffidandolo all’arpa, spostando il tutto nel registro acuto in modo da evitare ogni pesantezza strumentale. All’inizio la sostituzione arpa/chitarra mi era sembrata un po’ ovvia, così l’avevo scartata. In realtà si è rivelata efficace, una volta provata in scena (comunque continua tuttora a sembrarmi un po’ ovvia). Il clarinetto in si bemolle e il flauto scandiscono la melodia che si alterna con quella della voce di Leda Battisti. Nella parte centrale, accordi sostenuti dal quartetto d’archi si alternano a una figura sincopata in armonici divisa tra i due violini soli, cui si aggiungono il suono leggero del triangolo e rapide figure in sestine da parte dell viola. Bisio riprende la melodia già ascoltata nel finale di Il ritorno di Giuseppe, ma questa volta le figure melodiche sono state divise all’interno di tutti gli archi, mentre il clarinetto interviene dolcemente nel registro basso. E’ ancora la voce di Leda Battisti a chiudere, in un’atmosfera assai delicata creata da pianoforte e archi.
E’ il brano che ha subito più trasformazioni durante le prove in palcoscenico. Volevo evitare l’accompagnamento «terzinato» della versione discografica, e mi sono scervellato per trovare qualcosa che lo potesse sostituire senza essere invadente rispetto alla media della voce (successivamente Giorgio Gallione ha deciso di modificare il pezzo in un duetto tra Lina Sastri e Leda Battisti). Dopo vari tentativi ho individuato una figura dal sapore marcatamente minimal divisa tra i due violini che alternano in continuazione arco e pizzicato. Mi piaceva l’idea che l’accompagnamento non variasse mai dall’inizio alla fine del brano, creando così una sensazione di movimento e staticità allo stesso tempo (come accade appunto in molti brani di musica minimalista).
Questo mio piccolo hommàge a Michael Nyman ha lasciato però Lina Sastri assai perplessa la prima volta che lo ha ascoltato. Dopo poche battute mi ha chiesto con aria scettica: «Ma va avanti sempre così?» Ripensandoci, oggi trovo l’episodio alquanto buffo, ma sul momento non sapevo proprio come uscirne fuori.
Lina Sastri è un’artista abituata ad avere un controllo ferreo sul repertorio musicale quando realizza i suoi spettacoli; pur non possedendo nozioni tecniche specifiche dal punto di vista musicale, è in grado di realizzare esattamente quello che vuole, spiegando ai suoi collaboratori ogni minimo dettaglio degli arrangiamenti fino a che non è soddisfatta. Nel caso della Buona novella si è dovuta inserire in una partitura completamente scritta, e questo all’inizio ha creato qualche problema. Comunque, discutendo un po’, siamo riusciti sempre ad «aggiustarci». In questo caso abbiamo sostituito la prima parte con un’introduzione improvvisata di pianoforte, e solo verso la metà del brano abbiamo ripristinato l’arrangiamento originale. A distanza di tempo mi rendo conto che l’istinto musicale naturale di Lina Sastri ci aveva suggerito proprio la strada giusta. Tutto il gruppo suona la melodia principale, dopodiché ho deciso di nuovo di non risolvere sulla tonica; ho prolungato l’ultimo accordo di dominante aggiungendo dei piccoli canoni tra flauto e clarinetto, terminando bruscamente su una dissonanza di seconda minore.
Durante la scena della nascita di Gesù, il gruppo suona in sottofondo una dolcissima musica basata sulla trasformazione di due brevi cellule melodiche , principalmente affidata al clarinetto e all’arpa, mentre gli archi tengono lunghe fasce di note, come a sottolineare l’immobilità della situazione scenica.
Sinistri tremolii degli archi (al ponticello) introducono una delle canzoni più drammatiche di tutto il ciclo. In questa versione l’entrata di Lina Sastri è sostenuta solo dal pianoforte, ma ben presto l’arpa e i fiati creano cupi disegni sincopati sulla risposta che gli uomini delle Voci atroci dànno alle angosciate domande di Maria, mentre la percussione accenna un ossessivo ritmo di marcia sul temburo più basso (anche questa è stata un’ottima idea proposta da Lina Sastri durante le prove).
L’assolo centrale dell’ottavino è identico a quello del disco, ma sono stati aggiunti freddi accordi armonici degli archi, senza vibrato, che rendono più straniera l’atmosfera.
Il ritornello suona in maniera estremamente dissonante. Il pianoforte martella violentissimi grappoli di note nel registro più basso dello strumento, tamburo e cassa accelerano il ritmo spostando di continuo gli accenti, e gli archi suonano dietro il ponticello con grande forza, producendo così dei rumori assai penetranti e acuti, sgradevoli come un gessetto spezzato strisciato su una lavagna. Questi effetti sonori non sono usati in maniera gratuita, ma servono ad accentuare la carica ritmica della musica in mancanza di una vera e propria batteria rock, e sottolineano maggiormente la tensione presente nella musica, che tocca il culmine nella canzone successiva.
Per questo lungo monologo di Lina Sastri sulla disperazione di Maria ho pensato a un breve duetto tra violino e violoncello, entrambi con sordina, che suonano non coordinati tra loro, con molta discrezione e una sommessa cantabilità che mi pare si adatti bene a ciò che accade sul palcoscenico.
Ci troviamo, con questo brano, nel punto di maggior violenza verbale di tutto il disco. La versione originale mi pareva ttroppo morbida per un testo di tale genere, così ho pensato di accentuare la violenza fonica con figure velocissime di archi (sempre con le acide sonorità dell’esecuzione al ponticello) che per quasi tutta la durata della canzone attraversano come lame il tessuto musicale, insieme a insistenti pulsazioni della percussione. Il pianoforte realizza staccatissimi disegni sincopati in fortissimo nella regione grave della tastiera, quasi trasformandosi in un contrabbasso, mentre Claudio Bisio e le Voci atroci scaricano tutta la biliosa rabbia contenuta nelle parole scontrandosi con il gruppo strumentale. All’ingresso di Lina Sastri il tessuto musicale si fa più morbido, dato che gli archi cominciano a suonare usan do il legato, la non si allenta la tensione. Il flauto ha un assolo di difficilissima esecuzione a causa della garande velocità di articolazione richiesta. A ogni strofa c’è un cambio di atmosfera, i disegni del quartetto d’archi rallentano progressivamente di velocità, la percussione si interrompe, la sonorità generale passa gradualmente da uno stato di rabbiosa esaltazione alla malinconia più assoluta, con un intervento di pianoforte che raddoppia gli archi prima che il tutto si spenga nel finale in pianissimo.
Dopo l’aggressività scatenata durante la passione di Cristo, la musica compie una metamorfosi completa. Ho sempre ammirato come De André sia riuscito in questa canzone a evitare i luoghi comuni della retorica, disegnando le immagini delle madri addolorate con poche, asciutte frasi. Uguale essenzialità si trova nella musica; e l’ho sottolineata ancora di più affidando tutto l’accompagnamento agli archi pizzicati che creano una nuvola impalpabile su cui si adagiano le linee vocali delle madri dei ladri e di Maria.
Nella strofa di mezzo e sul parlato finale la melodia della canzone è affidata al clarinetto, insieme a dolci disegni melodici di violino e pianoforte.
Brevssimo, poche note affidate al calrinetto solo, prima dell’intervento di Andrea Ceccon.
Una sola canzone ha diviso gli animi a ogni replica della spettacolo, causando pareri assai controversi: Il testamento di Tito. Si tratta senz’altro della più celebre e amata delle canzoni del disco, e la originalissima interpretazione che ne ha dato Andrea Ceccon si discostava radicalmente da quella di De André. Lo stesso si poteva dire della rielaborazione strumentale.
Il probema principale del brano è il gran numero di strofe da cui è formato: i versi cambiano sempre ma la cadenza di ballata dal sapore popolare fa sì che la musica si ripeta uguale ogni volta. Ho pensato allora di ispirarmi diealmente al Bolero di Ravel, scrivendo un arrangiamento che a ogni ripetizione della stessa melodia facesse coincidere una diversa entrata strumentale, cercando di lavorare molto sul ritmo. Sul continuo tappeto in ottavi di viola si inseriscono le percussioni in controtempo, poi il pianoforte, con frasi ulteriormente sincopate rispetto alla melodia della voce, poi l’arpa in canone con il pianoforte, successivamente il primo violino con figurazioni rapide in terzine che si incastrano ritmicamente con quelle dell’altro violino, infine il clarinetto con un nuovo controcanto. Il tutto è molto difficile da coordinare senza direttore, e io in questo caso non potevo dirigere dato che avevo entrambe le mani impegnate a suonare il pianoforte.
Andrea Ceccon è stato molto bravo nell’impostare il personaggio di Tito usando una vocalità aggressiva, sporca, carica di inflessioni diverse rispetto alla profonda e vellutata voce di De André. Come direttore musicale posso dire con certezza che l’imprevedibilità di Ceccon nell’esecuzione poteva essere contemporaneamente un’esperienza esaltante (non si sapeva mai cosa sarebbe successo ogni sera dal punto di vista interpretativo) o esasperante (non si sapeva mai se Andrea si sarebbe ricordato tutte le parole). Certe sere l’ordine delle strofe veniva scambiato, a volte venivano soppresse alcune frasi e sostituite con vocalizzi estemporanei, una sera era tutto perfetto e la sera dopo succedeva l’Apocalisse. Tutto il gruppo doveva stare all’erta, Tito era il punto «caldo» dello spettacolo e ogni volta che si arrivava a quella canzone ci guardavamo chiedendoci: che succederà? Ceccon si divertiva come un pazzo a lasciarci nell’incertezza, sorridendo sardonico; la sua personalità di interprete, comunque è fuori discussione e ha sempre riscosso un grande successo.
Mi viene in mente un ultimo episodio legato a questa canzone: Andrea Ceccon girava sempre alle prove con in testa un buffo berrettino di lana, e ha deciso di conservarlo anche per la sera della prima recita. Qualche tempo dopo è apparsa una recensione dello spettacolo in cui era scritto che ceccon cantava Il testamento di Tito imitando le movenze e i toni di un extracomunitario, cosa che a quanto ne so non gli era mai passata per la testa; forse il critico aveva fatto il seguente ragionamento: personaggio ladro + berretto di lana = extracomunitario? Non lo sapremo mai.
Eccoci arrivati al numero finale, introdotto da un breve momento per violoncello solo. Dopo me frasi finali di Bisio, tutto il gruppo e le voci si uniscono in questo Laudate hominem, ben più solenne di quello iniziale. Si tratta di un vero e proprio pezzo di bravura per il quartetto vocale che deve arrampicarsi su estensioni scomodissime, cantando ritmi complessi e un testo molto lungo e articolato. I quattro solisti delle Voci atroci hanno avuto qui modo di sfoggiare tutta la loro bravura, mentre sotto le parti vocali si svolgeva una passacaglia dal sapore robusto e in crescendo, con una continua aggiunta di parti strumentali diverse, con molte sottolineature ritmiche da parte della percussione. Il clima del brano è di grande impatto, e soltanto nella chiusa finale recitata da Lina Sastri l’atmosfera musicale si abbassava un momento, quando il pianoforte soloo rimaneva assieme alla voce. Ogni sera improvvisavo qualcosa di diverso in questo punto, con risultati, devo dire onestamente, alquanto alterni. Credo di aver fatto un buon numero di sere riuscite, ma anche parecchi interventi da dimenticare.
Sul gran finale le voci di Leda Battisti, Claudio Bisio, Lina Sastri e del quartetto vocale si uniscono per intonare il Laudate hominem, e mentre il sipario si chiude si ascoltano le stesse percusiioni intonate dell’inizio, come campane lontane, che chiudono la partitura con le sonorità di gioia festosa che l’avevano caratterizzata al principio.