Nell’ottobre del 1997, per l’inaugurazione della sede della compagnia, il Teatro Gustavo Modena di Genova, l’Archivolto chiese ad alcuni artisti amici (Beppe Grillo, Daniel Pennac, Stefano Benni, Francesco Tullio Altan) una frase, una battuta beneaugurante.
Anche Fabrizio De André ci regalò un suo pensiero.
Auguriamoci che
da questo palcoscenico
l’effetto della catarsi
non sia mai così
liberatorio da non
lasciare spazio
alla comunicazione
sul dramma quotidianoFabrizio De André
Tre anni dopo l’Archivolto ha allestito «La Buona Novella».
Abbiamo tentato di tener fede al suo augurio.
Teatro dell’Archivolto
“Io mi ritengo religioso, e la mia religiosità consiste nel sentirmi parte di un tutto, anello di una catena che comprende tutto il creato, e quindi nel rispettare tutti gli elementi, piante e minerali compresi, perché secondo me l’equilibrio è dato proprio dal benessere diffuso in ciò che ci circonda. La mia religiosità non arriva a cercare di individuare il principio, che tu voglia chiamarlo creatore, regolatore o caos non fa la differenza. Però penso che tutto quello che abbiamo intorno abbia una sua logica, e questo è un pensiero al quale mi rivolgo quando sono in difficoltà, magari anche dandogli i nomi che ho imparato da bambino, forse perché mi manca la fantasia per cercarne altri.
Compagni, amici, coetanei considerarono «La Buona Novella» anacronistico. Non avevano capito che quel disco voleva essere un’allegoria che si precisava nel paragone tra le istanze migliori e più sensate della rivolta del Sessantotto e quelle, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate, ma da un punto di vista etico-sociale direi molto simili, che, 1969 anni prima, un signore aveva fatto contro gli abusi del potere, in nome di un egualitarismo e di una fratellanza universali. Si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi.”
Fabrizio De André
Nella continua ricerca, ai confini del repertorio teatrale, che l’Archivolto da anni compie all’inseguimento di nuovi temi, stili, metafore e autori, era fatale l’incontro con l’opera di Fabrizio De André. Non solo perché Fabrizio e le sue canzoni hanno segnato la formazione e la crescita di una generazione (è stato come per molti la colonna sonora della nostra adolescenza), ma anche perché la comune genovesità ci ha permesso di leggere e interpretare la sua opera non solo con ammirazione sconfinata, ma pure con una sorta di complicità legata ai luoghi, alle persone, ai suoni, alle vie, ai sapori che Fabrizio descriveva e trasfigurava in musica e che ci pareva quasi di conoscere e condividere con lui. Era ed è impossibile ancora oggi per me percorrere la città vecchia, traversare via del Campo, o passeggiare per Sant’Ilario incrociando la minuscola stazione abbandonata, un tempo di Bocca di rosa, senza automaticamente pensare a lui, ai suoi eroi derelitti, alle sue invenzioni, alla nostra terra e alla nostra lingua, e questa comunanza ho l’impressione mi renda ogni volta un po’ più adulto e partecipe del suo mondo, lirico e risplendente di solitudine.
“Quello che mi ha colpito del mondo dei carruggi è stato l’abitudine alla sofferenza e perciò la solidarietà. Si trattava di sottoproletariato, quindi neanche di una classe precisa, agguantabile da quelli che erano i partiti politici tradizionali, era un mondo che in qualche misura si difendeva dallo Stato e io ci ho sguazzato dentro. Avevo già delle idee politiche ben precise, ricavate da Brassens e dai suoi personaggi emarginati che poi ho ritrovato a Genova.”
Per un teatro come l’Archivolto poi, uno Stabile di Innovazione (così recita la dizione ministeriale), che per scelta e vocazione ha sempre cercato compagni di strada, ispirazioni, storie e linguaggi ai confini o totalmente al di fuori del consueto repertorio teatrale, incontrarsi e confrontarsi con il talento, la ricchezza, la poesia e l’unicità delle storie narrate da Fabrizio era necessario e quasi obbligatorio.
È accaduto nei quindici anni della nostra attività con cinema e fumetto, letteratura e fiaba. Abbiamo portato in palcoscenico Altan, Benni, Pennac, Saramago, Serra, Fellini, McEwan, Pratt. Talenti enormi ma praticamente mai stimolati all’avventura teatrale. Crediamo infatti, che se c’è una via per “non allevare polvere” in palcoscenico questa passi soprattutto dal coinvolgimento serio e non opportunistico con quanto di fertile, innovativo, disobbediente e attento al mondo esista anche fuori dal teatro. Gli artisti che hanno portato idee, poesia, storie, impegno civile, sperimentazione linguistica, visionarietà e immaginazione nella musica, nel fumetto o nella letteratura possono dare un contributo decisivo allo svecchiamento delle forme e dei modi del racconto, contribuendo alla creazione di un linguaggio polifonico, meticcio, contaminato, che porti linfa, sogni, e nuovi temi e stili di narrazione alla scena contemporanea. Così, con serissima incoscienza, ma forti di questa convinzione, ci siamo accostati a De André pensando a una elaborazione drammaturgica che fosse in grado di reinterpretare e in qualche modo completare il percorso del disco, che ci è servito come ispirazione e guida, trasformando «La Buona Novella» non solo in un concerto, ma in uno spettacolo originale, riproposto musicalmente nella sua versione integrale (nel disco alcune parti narrative furono tagliate per motivi di spazio), recitato, agito e cantato da una compagnia di attori, cantanti e musicisti che hanno pensato l’opera di De André come un ricchissimo patrimonio che può comunque ben resistere, come ogni capolavoro, anche all’assenza dell’impareggiabile interpretazione del suo creatore.
Già «La Buona Novella» trasuda teatro. Impostata come una fiaba leggendaria o come una sorta di sacra rappresentazione contemporanea, il disco racconta a più voci la vita di Gesù, ispirandosi con nobiltà, discrezione e libertà alla svariatissima, eterogenea e sfrangiata letteratura apocrifa sul tema: dal Protovangelo di Giacomo al Vangelo armeno dell’infanzia, ai frammenti dello Pseudo-Matteo. Sono materiali databili tra il I e IV secolo che, pur non essendo stati riconosciuti dalla Chiesa cattolica, ricalcano in larga misura quelli ufficiali e con un tono ingenuamente fiabesco, fantasioso, li completano con bellissimi, articolati e immaginifici racconti in particolare sull’infanzia di Maria e Gesù.
“Per l’album «La Buona Novella» mi sono ispirato ai Vangeli apocifi. Scelsi i Vangeli scritti da autori armeni, bizantini e greci perché erano una versione laica della storia di quell’eroe rivoluzionario che era Cristo, che predicava la fratellanza universale. Solo che Marco e gli altri erano un po’ l’ufficio stampa, gli Apocrifi, invece, vanno a ruota libera. I Sinottici risentono dell’influenza del Vecchio testamento. Negli altri c’è più umanità.”
Siamo tra il 1968 e il 1970 e «La Buona Novella» è il primo concept album di Fabrizio, con partitura e testo composti per dare voce a molti personaggi: Maria, Giuseppe, Tito il ladrone, il coro delle madri, un falegname, il popolo. Quasi un’opera da camera, con ruoli e personaggi che nel disco furono naturalmente tutti interpretati da De André ma che certo sono concepiti con sicuro taglio drammaturgico e con un’idea di coralità davvero teatrale, scenica. Da questa base prende le mosse il nostro adattamento, che alterna e intreccia le diverse canzoni con i brani narrativi tratti dagli Apocrifi, cui lo stesso De Andrè fa riferimento in partitura. I brani parlati, come in un racconto arcaico, vogliono sottolineare la forza evocativa e il valore delle canzoni originali, svelandone la forza mitica e letteraria.
De André si è sempre detto convinto che il compito di un artista sia quello di commentare gli avvenimenti del suo tempo usando però gli strumenti dell’arte: l’allegoria, la metafora, il paragone. E questa scelta è emblematica di come l’autore si sia posto, in tempi di piena rivolta studentesca, nei confronti di un tema così delicato e dibattuto dal punto di vista politico e spirituale.
Con «La Buona Novella» De André lavora certo a un’umanizzazione dei personaggi, ma la sua traduzione cantata dei temi degli Apocrifi è fatta con grande rispetto etico e religioso. La valenza “rivoluzionaria” della riscrittura sta più nella decisione di un laico di affrontare un tema così anomalo per quei tempi che nei contenuti o nel taglio ideologico. Solo a tratti nel racconto appare l’attualizzazione; più spesso le ricche e variegate suggestioni visionarie o fantastiche o simboliche degli Apocrifi sono ricondotte a una purezza quasi canonica, e talvolta traspare la sensazione che esista, anche per l’autore, la sconvolgente possibilità che in Gesù umanità e divinità si siano in qualche modo intrecciate o abbiano addirittura convissuto. Traspare così un duplice percorso nella interpretazione di De André; da una parte una innata tendenza a mettere in discussione tutto ciò che appare codificato, dogmatico o tradizionale, dall’altro una sensibilità che gli fa preferire tra le molte versioni degli Apocrifi sempre la scelta più nobile, matura e ricca umanamente, alla ricerca di un racconto forse meno sacro, ma sempre profondamente morale. Ricco di spiritualità ma senza clero né processioni, in una visione che risente certo dei suoi interessi per un anarchismo non schematico, ma vissuto piuttosto come una categoria dello spirito.
“Da Malatesta imparai che gli anarchici sono dei santi senza Dio, dei miserabili che aiutano chi è più miserabile di loro. Partendo da questa scoperta mi sono potuto permettere il lusso di parlare anche di Gesù Cristo, prima in «Si chiamava Gesù», poi in «La buona novella», e oggi mi viene il dubbio che anche lui non fosse che un anarchico convinto di essere Dio; o, forse, questa convinzione gliel’hanno attribuita altri.”
La drammaturgia aggiunta, recitata da Bisio e dalla Sastri, completa narrativamente il viaggio di De André: racconta l’antefatto dell’infanzia di Maria, svelandone la nascita anche questa “miracolosa”, e riempie il vuoto che va dall’infanzia del Cristo alla crocifissione. Così trent’anni di vita di Gesù sono sintetizzati in un lungo racconto che ci svela Cristo bambino anche stizzoso, impulsivo, che si serve dei suoi poteri talvolta per esibizionismo, sia quando accusato resuscita, per poi far tornar morto, un bimbo caduto da una terrazza per farlo testimoniare a sua discolpa, sia quando in un passo di grande qualità poetica guida i suoi compagni di gioco in una surreale cavalcata sui raggi del sole. Un altro brano di altissima suggestione presente nello spettacolo e mutuato quasi letteralmente dagli Apocrifi è il racconto di Giuseppe al momento della nascita del Re bambino. Un silenzio cosmico avvolge la Terra, il tempo si ferma, i gesti si sospendono e si paralizzano, le acque cessano di scorrere. Il mondo trattiene il fiato come in un quadro metafisico.
“Quando ho scritto l’album- ci racconta De André – non ho voluto inoltrarmi in strade per me difficilmente percorribili, come la metafisica o addirittura l’archeologia. Poi ho pensato che se Dio non esistesse bisognerebbe inventarselo, il che è esattamente quello che ha fatto l’uomo da quando ha messo piede sulla Terra. Gli evangelisti apocrifi sono vissuti in carne e ossa, solo che la Chiesa mal sopportava che ci fossero altre persone non di confessione cristiana a occuparsi di Gesù. Scrittori arabi che, nell’accostarsi all’argomento, nel parlare della figura di Gesù di Nazareth, lo hanno fatto con grande rispetto, tanto è vero che ancora oggi il mondo dell’Islam continua a considerare Gesù di Nazareth, subito dopo Maometto e prima ancora di Abramo, come il più grande profeta mai esistito.”
Nello spettacolo l’unica canzone che non appartiene al disco è “Si chiamava Gesù”, una creazione del 1967 presente nella raccolta “Fabrizio De André volume 1°”, dove già si delineano i temi e i pensieri poi organizzati nella “Buona Novella”, tra cui la negazione dell’origine divina del Cristo: “Non intendo cantare la gloria… di chi penso non fu altri che un uomo, come Dio passato alla storia”. Ho pensato di utilizzarla come una sorta di prologo, dando a questo inserto una giustificazione sia cronologica (è una sorta di prova di scrittura o di esplorazione dell’argomento) sia contenutistica.
Il Sessantotto è ancora vivissimo e, mai prevedibile e alla moda, De André l’anarchico, il cantore della ribellione e della protesta si confronta invece con la religione e la spiritualità. Si arriva al paradosso che le parole e i temi giudicati blasfemi ad esempio dalla Rai (che censurò ed escluse dalla programmazione «La buona novella») diventano motivo di interesse per teologi ed ecclesiastici, che cominciano a invitare Fabrizio a incontri e convegni, curiosi di scoprire nell’irriducibile cavaliere libertario, ateo, dissacratore, un così particolare cantore di un dio umanissimo, ben distante dagli altari e dagli ori.
“Ma io cosa ne sapevo di teologia? Rifiutai gli inviti, perché non avrei saputo che cosa rispondere ai loro dotti quesiti. Ero solo un autore di canzoni che aveva raccontato la storia di un uomo molto buono la cui madre, andata in sposa a un uomo molto vecchio, si era fatta mettere incinta da un uomo misterioso e presumibilmente bellissimo, e comunque giovane, credendolo un angelo.”
Siamo di fronte a una rilettura degli Apocrifi non molto lontana e vagamente imparentabile a quella del “Mistero Buffo” di Dario Fo e Franca Rame, che arriveranno a risultati altrettanto mirabili attraverso una diversa strada. Quelle della “Buona Novella” sono le canzoni create da un eretico che non vuole farsi classificare ideologicamente, che racconta storie e leggende “altre”, che si interroga sul bene e sul male, che non si compiace della sua conoscenza biblica, ma offre squarci inconsueti e nascosti dei fatti e della Storia, vestendo di musica il suo verseggiare poetico, polemico e misterioso.
“Il Dio in cui nutro speranza non ha mai suggerito ai suoi seguaci i sentimenti della calunnia, dell’odio, della vendetta, sfociati in orribili guerre, in devastanti persecuzioni, in una spaventosa varietà di tormenti fisici e morali. Il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive; un Dio che dovrebbe sostituirsi alla così detta giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia, alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell’amore che donna riuscì mai a mettere al mondo.”
L’album, che lo stesso De André ha poi ripreso in forma di suite di cinque pezzi nel suo ultimo concerto (e forse fu proprio questo rinnovato interesse di De André per la sua opera a sollecitare la mia curiosità di regista e creatore di spettacoli), contiene alcuni brani tra i più famosi della produzione di Fabrizio; ad esempio “Ave Maria”, centro ideologico della narrazione, che può essere considerato uno dei più famosi manifesti della protesta femminile degli anni Settanta, così come ”Il testamento di Tito”, che attraverso la voce del ladrone buono sulla croce rilegge e commenta in chiave critica i dieci comandamenti, è stato uno dei più efficaci ed emblematici controcatechismi degli anni della contestazione.
“Perché riproporre «La Buona Novella»? Perché, per i tempi in cui è stata scritta, si è trattato di un discorso, a parer mio, rivoluzionario. (…) Quando scrissi «La Buona Novella» (1969) eravamo in piena rivolta studentesca e ai meno attenti, vale a dire la maggioranza dei fruitori di musica popolare, il disco apparve come anacronistico. Ma cosa andava predicando Gesù di Nazareth se non l’abolizione delle classi sociali, dell’autoritarismo, in nome di un egualitarismo e di una fratellanza universali? È un po’ come se io mi fossi rivolto ai miei coetanei che si battevano contro smisurati abusi di potere e di autorità e avessi detto loro guardate che lo stesso tipo di lotta l’ha già sostenuta un grande rivoluzionario 1969 anni fa, e tutti sappiamo come è andata a finire. Perché, a parer mio (di allora come di oggi), la lotta contro l’autorità, il potere e i suoi abusi, va combattuta ogni giorno individualmente: certo, ci sono momenti e casi eccezionali in cui è meglio lottare insieme, ma questo insieme deve essere una somma di individualità, non un branco di pecore che lotta in nome di un’ideologia astratta e che si ponga come obiettivo quello di rimpiazzare attraverso l’imposizione dei suoi dogmi lo stesso potere contro cui lotta, nella logica di “leva il culo tu che ce lo metto io”. (…) Osservando la lotta studentesca e le sue istanze, quelle giuste e sensate, ho parlato di un’altra lotta sostenuta da un uomo 2000 anni prima che aveva obiettivi analoghi. (…) Il culmine etico de «La Buona Novella» sta nel «Testamento di Tito». Il ladrone buono confuta, uno per uno, tutti e dieci i comandamenti mettendo in evidenza la contraddizione tra le leggi emanate dalle classi al potere per proprio comodo, e la difficoltà di attenervisi da parte di chi il potere lo deve solo subire, e osserva quelle leggi, quando le osserva, solo per scongiurare la minaccia della repressione «La buona novella», a mio parere fu allora un album, un discorso assolutamente moderno e per certi aspetti lo è ancora oggi.”
Per mettere in scena lo spettacolo ho cercato di spogliarmi dall’imbarazzo e dal senso di inadeguatezza dato inevitabilmente dall’assenza di De André interprete. Sono sempre stato convinto, d’altronde, che le opere dei grandi verifichino ancor più il loro valore assoluto se slegate dai suoi creatori. La prosa mi ha abituato e allenato a questo, sennò perché rifare Shakespeare o Molière?
A inizio carriera mi proposero, ad esempio, di mettere in scena le farse di Dario Fo. Tutti, giustamente, erano spaventatissimi dal confronto e dal giudizio; che giovani attori e registi si confrontassero con materiali così personali e mitici e funambolici sembrava un gesto di incoscienza o arroganza. Ma il risultato fu buono ed è ciò che avevo sempre ottimisticamente sperato. Sarebbe ben triste se un capolavoro non riuscisse a sopravvivere al genio del suo creatore. In questo caso poi l’intento non era di riprodurre un concerto o un disco di Fabrizio, ma di inseguire una suggestione nata dalla lettura dell’opera e degli spartiti, trasformando la performance del solista in uno spettacolo corale, ampliando, da teatrante, quel desiderio di narrare non solo in musica che traspariva dalla prima stesura. Come detto, infatti, in molte canzoni dell’album De André scrisse commenti parlati che per ragioni di spazio non inserì poi nel vinile, testimoniando una voglia di raccontare che talvolta la musica o la canzone non riusciva totalmente a soddisfare.
“Io sono un moralista. Quindi penso che il fine della canzone sia quello, se non proprio di insegnare, almeno di indicare delle strade da seguire, dei codici di comportamento. La morale puoi trovarla più o meno dappertutto nelle mie canzoni, ed è l’unico motivo che mi fa pensare che questo possa anche essere un mestiere serio. A chi cerco di insegnare e di indicare strade? Ai giovani? Quando i giovani diventano troppo più giovani di te, non sei più sicuro di non essere un vecchio trombone. Allora hai bisogno di avere un mestiere «vero», di quelli di primaria importanza: perché senti che la gente ti può abbandonare, che non stai più insegnando un cazzo, allora mi sento più serio a fare l’agricoltore che non il cantautore.”
Un nodo fondamentale da sciogliere per trovare autonomia e originalità espressiva era evidentemente la scelta della compagnia.
Con Claudio Bisio avevo già lavorato e conoscevo bene la sua sensibilità e l’enorme potenzialità. Insieme avevamo messo in scena “Monsieur Malaussène”, un monologo di Daniel Pennac che narra in modo seriamente comico le ansie, le paure, le riflessioni e le paradossali avventure di un futuro padre che idealmente dialoga col figlio che sta per nascere. Al di là del grande successo dello spettacolo, fu la conferma che Claudio è attore vero, capace di scandagliare i territori dei sentimenti con una grazia, una leggerezza di tocco, una nobiltà comica insospettabile per chi lo conosce solo televisivamente. In più, Claudio canta con naturalezza, senza vizi musicali, ed è soprattutto un grande narratore, un artista che sa comunicare col pubblico con simpatia, profondità, intelligenza e senza ammiccamenti, dotato della tanto amata “pensosa leggerezza” evocata da Italo Calvino. E certo la sua abilità nel frequentare i territori anche stilistici del Fo affabulatore non poteva che essere utilissima. Quando un giorno, con finta negligenza, ho letto con lui il protocopione dello spettacolo, una specie di canovaccio pieno di zoppie e inciampi, e ho visto i suoi occhi lampeggiare, ho capito che potevamo farcela. Progressivamente, abbiamo cercato di rimuovere paure e pudori nei confronti del mito De André e speriamo e crediamo di averlo rispettato senza averlo copiato.
Con Lina c’è stato un altro tipo di incontro. Non ci conoscevamo, o meglio, lei non conosceva il mio lavoro e l’Archivolto. Io l’avevo amata moltissimo sia sullo schermo che in palcoscenico e l’ho subito pensata ideale per il ruolo. Lina è personale, unica. Sa sposare sensibilità e forza, carisma e fragilità. Ma per il personaggio di Maria ho sempre avuto la convinzione che si dovesse sdoppiare l’interprete. Negli Apocrifi, ma soprattutto in De André, è descritta una Maria bambina che dai tre ai sedici anni vive una vita eccezionale, ma arriva alla maternità quasi inconsapevole, senza apparentemente aver scelto nulla: una vergine bambina incastonata in una storia di cui è protagonista stranita e fragile. Ma, soprattutto in De André, con la maternità Maria subisce una trasformazione repentina, totale. La giovinezza finisce di colpo. Si entra improvvisamente nella stagione del dolore, acquisendo però una forza “che illumina il viso” e regala il senso dell’eternità. C’è in queste due donne un salto di fisicità, maturità e consapevolezza che mi hanno convinto a chiedere a Leda Battisti di essere Maria bambina e a Lina di incarnare la Madre di Dio. Leda canta mirabilmente “Il sogno di Maria” con la voce, l’ingenuità e lo stupore di una ragazzina. Lina è una madre che sa piegarsi al dolore come uno stelo, ma ha nel corpo e nell’anima le radici di una quercia. La sua interpretazione del pianto di Maria sotto la croce mi ammutoliva ogni volta. Così, nello spettacolo, la Maria bambina di Leda quasi svanisce dopo l’annuncio dell’imminente maternità e ricompare solo a tratti come un’eco, un ricordo, lasciando posto a una Madonna madre cosciente e consapevole del suo ruolo unico, adulto e tragico.
Tito il ladrone è Andrea Ceccon, musicista e cantante leader delle Voci atroci, un genovese che ben conoscevo e che ho sempre ammirato per la sua creatività e il suo anticonformismo musicale. A mio avviso è un Tito perfetto: aspro e senza vezzi. E le Voci atroci compiono in quattro il miracolo di rimpiazzare un coro pensato ben più numeroso, senza perdere qualità ed efficacia scenica. Per Carlo Boccadoro e i Sentieri selvaggi il discorso potrebbe essere infinito ma, fortunatamente, basta ascoltare: sono gli autori di una nuova creazione che nasce da una grande sorgente poetica.
Scenograficamente lo spettacolo è ambientato in una sorta di limbo bianco: un ciclorama di carta sottilissima che avvolge la scena, inglobando le piccole pedane che ospitano Sentieri selvaggi e Voci atroci, e regalano volumi e primi piani per le varie canzoni. L’impaginazione è data dai progressivi cambi di questi fondali cromatici (rossi e blu soprattutto) ed è arricchita dalla proiezione di immagini tratte dall’opera di Osvaldo Licini, appena rielaborate, o sezionate o raddoppiate specularmente. Con Guido Fiorato, scenografo e costumista, abbiamo avuto subito la sensazione che ispirarsi a Licini, ai suoi cieli, alle sue lune, ai suoi angeli bizzarri, a cavallo tra poetico surrealismo e tragica visionarietà fosse un modo per allargare ancor più l’orizzonte delle suggestioni che le parole di De Andrè sanno suscitare.
Per l’Archivolto “La Buona Novella” è stato l’ennesimo tentativo di “fare teatro senza sciuparlo”, alla ricerca di una drammaturgia non anacronistica né velleitaria, che sa contemporaneamente sorridere e interrogarsi sui temi e i problemi dell’oggi. Così, in un’epoca in cui troppo spesso si classificano le messinscene in base all’apertura mascellare dello spettatore durante lo sbadiglio, crediamo che solo mettendo in discussione e a confronto le diverse forme dello spettacolo si possa combattere quel rischio di sterilità di cui sembra soffrire il teatro di oggi, in bilico tra il serioso e un po’ stucchevole accademismo di certa prosa e gli ammiccamenti paratelevisivi di una scena che talvolta confonde futilità con leggerezza.
Ci resta di Fabrizio, dopo aver a lungo rivisitato il suo mondo poetico, la coscienza che pochi come lui seppero cantare così civilmente l’odio per l’inciviltà dei tempi. Le sue invettive e la sua dolcezza ci mancano. E in quanto al suo atteggiamento arguto e distante rispetto alla frenesia malata e ridicola del nostro tempo o alla sua attenzione per l’impegno sociale o spirituale di un artista, vorremmo commentare con lui l’edificante e imperdibile compilation di trenta interviste ad altrettanti Vip commissionata qualche tempo fa dalle Edizioni Paoline e che suona più o meno così: “Gesù era soltanto Dio, oppure anche lui addirittura un Vip? Evidentemente è iniziata l’era dei nuovi Apocrifi”.
Giorgio Gallione