Questo è un invito a ricordare l’orrore

di Vera Schiavizzi

Testata
la Repubblica
Data
11 febbraio 1997
Articoli di
Vera Schiavizzi
Massimo Novelli e Vera Schiavizzi
Maria Pia Fusco
Irene Bignardi
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“Primo Levi mi manca molto e credo che manchi al mondo intero. Non l’ho conosciuto di persona . Ma la serie di telefonate che intercorsero fra lui e me, pochi mesi prima che morisse, mi imprigionarono. Trovai in lui un fratello e capii che dovevo fare quel film”. Sono parole di Francesco Rosi. Il regista de La Tregua ha partecipato ieri mattina al convegno Tregua e conflitto , organizzato a Torino dal premio Grinzane Cavour in occasione dell’anteprima del film tratto dal romanzo di Levi.

Davanti a un pubblico commosso, Rosi ha parlato del messaggio dello scrittore, morto nell’87. “Nei suoi libri ho trovato, come hanno trovato gli innumerevoli lettori nel mondo” ha detto “un’aggiunta di emozioni, di conoscenza, di valori: di quei valori di cui abbiamo bisogno tutti, in un mondo che si fa sempre più duro”. Levi, ha proseguito il regista, “ci ammonisce sulla necessità della memoria e di non dimenticare, ma anche sull’uso distorto che il mondo di oggi potrebbe fare della tecnologia”.

Sulla necessità di ricordare, si sono soffermati gli scrittori invitati al convegno. “Levi ha voluto testimoniare di qualcosa che potrebbe riaccadere ancora” ha detto il giornalista e deputato dell’Ulivo Furio Colombo “e il suo sogno nel sogno al termine del libro, in cui una volta tornato a casa sogna di essere ancora ad Auschwitz, vuol dire questo: quell’orrore è stato, ma potrebbe ancora essere”.

Dopo di lui, ha aggiunto, “venne la generazione dei negazionisti che, negando l’esistenza dei campi di concentramento, hanno recato offesa al mondo. Anche per evitare errori storici come questi, abbiamo presentato alla Camera una proposta affinché il 16 ottobre venga proclamato Giornata della memoria. Quel giorno del ’43 le truppe tedesche circondarono il ghetto di Roma, portando via 1022 persone: se ne salvarono tre”.

Sono poi intervenuti Cesare cases, Claudio Magris (che ha ricordato “la libertà da ogni condizionamento” di Levi) e Lorenzo Mondo. Tra il pubblico c’erano i figli dello scrittore, Renzo e Lisa, e la sorella Anna Maria.

Il giorno della Tregua

Agnelli: “Che commozione ricordare quegli anni”

di Massimo Novelli e Vera Schiavizzi

Il copione è stato rispettato. Doveva essere un evento, certo, ma senza troppo sfarzo visto l’argomento: i lager nazisti. Così ieri sera, al Teatro Regio di Torino, l’anteprima mondiale del film La Tregua, che Francesco Rosi ha tratto dal romanzo di Primo Levi, è stata giudiziosamente caratterizzata da poca mondanità. Dopo lunghe discussioni, e dopo che il Museo nazionale del cinema aveva “avocato a sé l’organizzazione della serata (che costerà 600 milioni di lire, pagati dagli enti locali), la Comunità ebraica torinese, alla quale Primo Levi apparteneva benché da perfetto agnostico, ha avuto cento biglietti, anche se non figura tra gli organizzatori della serata. A differenza di quanto avverrà per il resto delle manifestazioni celebrative del decennale della morte di Levi, che si svolgeranno in aprile.

Le luci del Regio si sono spente poco dopo le venti.Tra il pubblico erano presenti, tra gli altri, Simone Weil, il presidente della Rai Enzo Siciliano, il direttore generale Franco Iseppi e naturalmente tutto il cast e la troupe del film: dal produttore Leo pescarolo al regista Francesco Rosi e al protagonista John Turturro, per un totale di 120 persone. In platea, poi, sedevano l’avvocato Giovanni Agnelli (“Per me ricordare quegli anni tragici è un’occasione di grande commozione”, ha detto all’ingresso), il presidente della Fiat Cesare Romiti, il regista Gillo Pontecorvo, la stilista Mariuccia Mandelli,l’ambasciatore d’Israele in Italia Yeudha Millo, l’ex giudice Ferdinando Imposimato, il sottosegretario agli esteri Piero Fassino e Marta Marzotto. Tra le personalità del mondo della cultura, ecco Cesare Cases e Claudio Magris, Rosetta Loy e Giulio Einaudi, Alessandro Galante garrone e Gianni Vattimo. E ancora: la presidente della Comunità ebraica torinese Lia Tagliacozzo, il direttore del Festival del Cinema di Venezia Felice Laudadio. In sala c’erano anche la sorella di Primo Levi, Anna Maria, ed i due figli Renzo e Lisetta. Assente la moglie Lucia. La famiglia dello scrittore non ha voluto sottrarsi all’anteprima di un’opera che Primo Levi aveva amato ancor prima che ne iniziasse la lavorazione. “L’idea che da La Tregua nasca un film” aveva detto pochi giorni prima di togliersi la vita l’11 aprile 1987 “è una delle poche cose che in questi giorni mi dia un briciolo di felicità”.

Tuttavia, non ci sono state dichiarazioni né interviste, secondo una regola ferrea che la famiglia levi si è imposta e che ha rispettato per dieci anni.

Per il suo lavoro, dietro il quale si immagina senza vederla una Torino “subliminale e fantastica”, Rosi si è basato soltanto su una conversazione con levi, e sulla lettura e rilettura del libro, senza ricercare testimonianze, senza ricercare gli amici e i compagni di prigionia. John Turturro, invece, ha girato a lungo per le strade di Torino, quasi a voler penetrare meglio nello spirito di quel ragazzo ebreo degli anni trenta e di quell’uomo incredulo che, tornato a casa dopo venti mesi di campo di sterminio, Auschwitz, e di viaggio, bussa alla porta del palazzo dove è nato e stenta a farsi riconoscere dai suoi.

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Quanto dolore per noi sul set

John Turturro racconta l’esperienza e il rapporto con Levi

di Maria Pia Fusco

Umiltà e rispetto. Con questi sentimenti John Turturro si è avvicinato a Primo Levi, consapevole “della grande responsabilità di restituire sullo schermo il ritratto di un uomo straordinario. Sarei arrogante se pretendessi di conoscere la personalità di Primo Levi, posso solo dire l’idea che mi sono fatto di lui attraverso i libri, le qualità che ho cercato per il personaggio di La Tregua, che sono la timidezza e la discrezione, e insieme una profonda forza morale e una determinazione insolita, incredibile in una persona dall’apparenza così mite e schiva. Una determinazione che gli ha dato la capacità di guardare dentro la tragedia e trovare i valori del vivere”.

Insolita è anche l’intensità del rapporto di John Turturro con un personaggio e un film, che ha desiderato e atteso per oltre sei anni, da quando per la prima volta lesse brani dello scrittore in un articolo su I sommersi e i salvati. “Mi colpì subito la semplicità con cui raccontava la sofferenza e il dolore, un’esperienza che invece di distruggere il senso dell’umanità, in lui lo aveva esaltato. Cercai tutti i suoi libri tradotti in America. Ho quasi imparato a memoria Se questo è un uomo. E quando ho sentito del progetto di un film da La Tregua ho deciso che non potevo lasciarmelo sfuggire”.

Nato e cresciuto a Rosedale nei Queens, da madre siciliana e padre di Giovinazzo, vicino Bari, Turturro ha ritrovato nella letteratura di Levi “anche una sorta di richiamo alle radici. Mio padre aveva conosciuto il fascismo prima di lasciare l’Italia e ci raccontava spesso di quando era giovane balilla, dell’uniforme che doveva indossare il sabato, del fanatismo e delle esaltazioni delle riunioni sportive. Io ero un bambino, i suoi racconti evocavano qualcosa di avventuroso e folle ma lontano, irreale. Attraverso le pagine di Levi, e poi con i film, i video, i documentari che ho voluto vedere su quel periodo, l’avventura è diventata realtà, vita vissuta”.

A favorire la realizzazione del sogno di Turturro è stato Martin Scorsese, che ha parlato a Francesco Rosi dell’attore e con la sua preziosa cineteca ha aiutato l’attore a conoscere il cinema di rosi. Turturro ricorda con emozione il primo incontro con il regista: “Ho amato subito la sua brusca essenzialità, la sua forza, la capacità di rendere attuale il passato. La Tregua non è una storia lontana, ma racconta il presente dell’umanità. Nei lunghi mesi di lavoro insieme, è nata una grande amicizia, ho scoperto che è uno dei più giovani registi che abbia mai conosciuto, giovane e aperto, con in più la ricchezza del vissuto e dell’esperienza”.

Si è scritto parecchio sulle difficoltà delle riprese di La tregua. “Siamo stati mesi in piccoli villaggi perduti dell'Ucraina, lontani dal mondo, talvolta con scarsa possibilità di comunicare, di telefonare a casa. Certo, non c'è paragone con i drammatici disagi dei veri protagonisti della vicenda, ma credo che in qualche modo le nostre difficoltà ambientali ci abbiano aiutato ad avvicinarci al loro stato d'animo di persone private della dignità di esseri umani e dell' "home", nel significato complessivo di

casa, patria, famiglia, appartenenza, calore, sciurezza. Ricordo che quando mi sono ritrovato nella confusione dell'aeroporto di Francoforte, nel viaggio di ritorno negli Stati Uniti, dopo mesi di silenzio e di lontananza, ho sentito un malessere strano, un'eccitazione, l'ansia quasi dolorosa di un ritorno alla vita. E io sono solo un interprete. Non posso immaginare che cosa abbiano provato Primo Levi e gli altri reduci dai campi di concentramento ritornando a casa”.

E' proprio il senso del ritorno che, secondo Turturro, rende unico il libro e il film La tregua. “E’ la prima volta che si racconta un ritorno alla vita, qualcosa che difficilmente appartiene al cinema. Anche se evoca la tragedia più grande di questo secolo, La tregua non è un film disperato, ma è pieno di vitalità, dì forza, perfino di humour. Il sentimento di tutto il film è la speranza, qualcosa di cui non solo il pubblico del cinema, ma il mondo di oggi ha grande bisogno».

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Il lungo cammino verso le coscienze

L’omaggio di Rosi all’Olocausto

di Irene Bignardi

Mio padre è stato – giovanissimo tenente – uno dei seicentomila militari italiani internati in un campo di concentramento nazista, uno dei tanti di cui parla Alessandro Natta nel suo libro L’altra resistenza, appena stampato da Einaudi. E i suoi racconti dei mesi che impiegò a ritornare da Wietzendorf a Milano – quattro, nel suo caso -, pieni di treni, bivacchi notturni, deviazioni, russi giganteschi e buonissimi, fame terribile e terribili abbuffate improvvise, si sono sovrapposti, nella mia memoria, alla prima lettura di La Tregua di Primo Levi, al libro che è stato definito il suo Purgatorio (dopo l’Inferno di Se questo è un uomo ma senza il Paradiso) e la sua Odissea. Ma le peripezie del picaresco e drammatico “nostos”, del lungo e avventuroso ritorno a casa dai lager, se si nutrivano della stessa aneddotica, non vivevano dello stesso umore, dettato dalla tragica coscienza che sottende il libro di Primo Levi: l’esperienza dell’Olocausto.

In questo delicato equilibrio – tra la cronaca di un lento ritorno alla vita dopo l’orrore dei campi e il risveglio della coscienza e dell’indignazione, tra la necessità di andare avanti dimenticando e la necessità di ricordare, per testimoniare – stanno il fascino e la forza del libro di Primo Levi. E sta anche uno dei problemi più seri che hanno dovuito affrontare Francesco Rosi e i suoi sceneggiatori Rulli e Petraglia, lavorando sulla base di un soggetto scritto dal regista con Tonino Guerra, per realizzare questo film nobile e pittoresco, affollato e rapsodico, pieno di colore, calore, umanità, masse, treni, paesaggi – in kolossal con un’anima, non sempre perfettamente calibrato, ogni tanto ripetitivo, spesso toccante, sempre generoso.

Il problema è quello del tono, della voce, dello sguardo “letterario” di Primo Levi – un misto di ironia, assurda felicità, sgomento – che nella concretezza del cinema ha trovato una traduzione quasi perfetta nella faccia prosciugata, timida, intensa di John Turturro, protagonista poco protagonistico, tendenzialmente silenzioso, osservatore e testimone più che personaggio portante. Ma, appunto, una traduzione “quasi” perfetta. Perché inevitabilmente sullo schermo accade che il discorso interiore scompaia di fronte all’aspetto picaresco, che lo sguardo soggettivo diventi la cronaca oggettiva delle tappe del ritorno, che la particolare qualità dell’ironia di levi, soprattutto dove nel film compaiono i comprimari italiani, si traduca in una comicità vernacola non sempre eccellente, un tono più folkloristica del necessario. Mentre il basso continuo dei ricordi – di Auschwitz, degli incubi, della paura – che percorrono sotterraneamente il libro in un periodico andare e venire tra i “sommersi” e i “salvati”, è consegnato a qualche raro flashback e a pochi interventi della voce fuori campo che, proprio perché cita verbatim le parole di Levi, incide drammaticamente – la voce del Levi che parla dell’ “atroce privilegio” dei sopravvissuti e dell’atroce privilegio di scrivere, la voce del Levi agnostico che sancisce: “Se c’è Auschwitz non può esserci un Dio”.

Nella folla di personaggi e storie del film – girato con grandi mezzi in un’Ucraina fuori dal tempo e fotografato con mimetica sintonia da Pasqualino De Sanctis, scomparso durante la lavorazione, e da Marco Pontecorvo, che l’ha sostituito – spiccano il Greco, interpretato con grande simpatia da Rader Serbedzija di Prima della pioggia, che teorizza “E’ guerra sempre” (ma anche la fondamentale importanza delle scarpe), e la strana banda costituita da Cesare, il materassaio del ghetto di Roma (Massimo Ghini), da Daniele, il veneziano unico superstite della sua famiglia (Stefano Dionisi), dal musicista Roberto Citran, dal borsaiolo Claudio Bisio. E poi la bella infermiera russa Galina (Agniezka Wagner) che offre a Primo Levi, insieme, l’occasione di lavorare e di riscoprire un palpito sentimentale, il confusionario colonnello Rovi (Teco Celio), l’ufficiale russo che prepara solitario una danza al suono di Cheek to cheek per la celebrazione della caduta di Berlino (una bella estrapolazione originale della sceneggiatura), il generale Timosenko, l’eroe di Stalingrado, che compare, stravagante e mitico nel suo mantello (“un monumentale rettangolo nero di un metro per due”, annotava Levi) ad annunciare all’umanità arenata nel centro di raccolta di Staryje Doroghi che finalmente si torna a casa.

Ed è un’idea originale degli sceneggiatori – suggerita da due paginette, in sottofinale, del libro – la scena più forte del film: all’arrivo alla stazione di Monaco del treno degli ex-deportati, dopo un labirintico ed estenuante giro attraverso mezza Europa, Levi-Turturro scopre la stella di Davide che porta ancora appuntata sul petto davanti a un gruppo di militari tedeschi che stanno lavorando sotto la sorveglianza degli americani. Scriveva Levi nel libro: “Mi sembrava che ognuno avrebbe dovuto interrogarci, leggerci in viso chi eravamo, e ascoltare con umiltà il nostro racconto. Ma nessuno ci guardava negli occhi, nessuno accettò la contesa… ancora forti, ancora capaci di odio e di disprezzo, ancora prigionieri dell’antico nodo di superbia e di colpa”. Rosi, con una bella sintesi, ha voluto immaginare che questa “contesa” ci sia, che nel silenzio di ghiaccio di quella stazione un tedesco si inginocchi davanti alla stella simbolo della sofferenza dell’Olocausto. E’ un omaggio alla coscienza di poi. E’ la premessa a un finale scarno e pudico, che ricollega La Tregua a Se questo è un uomo e ne riprende le parole – mentre Primo Levi, dopo un anno di lager e dieci mesi di odissea, nella casa di Torino dove era nato e dove morirà di sua volontà l’11 aprile 1987, prova a cimentarsi, ormai definitivamente diverso, con i rituali di una normalità cui non saprà mai del tutto tornare.

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