Quattro mesi senza tregua

Testata
Io donna
Autore
Paola Piacenza
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Oggi si gira la scena del mercato. Primo Levi e Mordo Nahum, il greco, devono scambiare una camicia con qualche uovo. L'anno evocato dalla macchina da presa è il 1946, il luogo Cracovia, nel cuore della Polonia liberata. «Una camicia si poteva vendere da 50 a 100 zloty; un uovo costava cinque o sei zloty; con 10 zloty si poteva mangiare minestra e pietanza alla mensa dei poveri, dietro la cattedrale». I due uomini arrivano direttamente dall'inferno, dal campo di sterminio di Auschwitz appena liberato dall'esercito russo e sono ali'inizio di un viaggio che, dopo nove mesi di cammino attraverso l'Europa martoriata dalla guerra, li riporterà a casa.

Francesco Rosi gira La tregua.John Turturro è Primo Levi, Rade Serbedzja è il greco, Leopoli è Cracovia. Un sogno lungo oltre 10 anni finalmente si realizza. «Ho amato La tregua, è una storia che intorno al dolore racconta la gioia del ritomo alla vita» dice il regista di Salvatore Giuliano e Le mani sulla città. Rosi non ha mai pensato di fare un film da Se questo è un uomo, il libro che Levi, giovane chimico e intellettuale torinese catturato dai tedeschi ali'indomani dell'armistizio, scrisse di getto nel 1946 dopo la liberazione dal lager. «Se questo è un uomo è tutto chiuso dentro il dolore, non mi sento di raccontare gli orrori dell'Olocausto: altri registi lo hanno fatto in modo eccellente». Ha scelto di raccontare La tregua, romanzo di conciliazione e di speranza, storia di un viaggio a tratti drammatico a tratti picaresco che Levi diceva di aver scritto per divertirsi e per divertire il pubblico. «Decisi di fare il film nel 1987 e telefonai a Primo Levi, gli spiegai che cosa mi spingeva a chiedergli di affidarmi il suo libro» ricorda Rosi. «"La sua richiesta è una piccola luce in un momento senza luce" mi disse e io non capii. Tutto mi si chiarì una settimana più tardi, l'11 aprile del 1987, quando Levi si tolse la vita». Nel decennio che seguì Rosi ha fatto parecchia anticamera col copione sottobraccio, spesso ha pensato di lasciar perdere («non mi piace sostare nei corridoi»), finché non ha visto John Turturro in Barton Fink e ha deciso che non poteva esserci altro Primo Levi se non lui: «Perché ha negli occhi l'innocenza e l'ingenuità, ma anche la durezza razionale di Levi che era dolce e poeta, ma anche rigorosissimo nei suoi principi». E il sogno ha cominciato a prendere forma.

«Altro che sogno! Questo film è una splendida realtà» interviene Leo Pescarolo, produttore di uno dei pochi, pochissimi, film italiani degli ultimi anni che si meritino l’appellativo di kolossal: «Un cast internazionale di altissimo livello, uno sforzo produttivo da 20 miliardi, 27 mila comparse, quattro mesi di riprese in Ucraina» dice con orgoglio. Lo stesso orgoglio che manifestano indistintamente tutti i partecipanti all'impresa: «Quando ho saputo che Rosi girava La tregua ho deciso che dovevo esserci a tutti i costi» dice Stefano Dionisi, che nel film è Daniele, un giovane ebreo che nel lager ha perso tutta la famiglia, una delle figure più drammatiche. «Parlare della Tregua come di un film qualunque è semplicistico, riduttivo. È stata un'odissea, un viaggio del corpo e dello spirito con molti più punti in comune col percorso di Levi di quanto si potrebbe immaginare».

«È il genere di film dei quali a posteriori è bello poter dire "Io c'ero"» gli fa eco Roberto Citran, nella finzione scenica un violinista poetico e sognatore che grazie alla musica ritrova la capacità di vivere. «Certo, quattro mesi in Ucraina non sono stati uno scherzo: siamo passati da 30 gradi sotto zero a 30 gradi all'ombra nel giro di un mese, io non mangiavo nientè perché tutto mi sembrava radioattivo. Mi ero portato da casa 25 chili di scatolette: tonno, fagioli e trippa. Credo proprio di aver rischiato lo scorbuto». Andy Luotto, ancora incredulo al pensiero di aver avuto l'opportunità di lavorare col grande Rosi («Ali'inizio lo chiamavo Maestro, finché qualcuno mi ha detto che nell'ambiente è noto come "'O professore", poi sono passato a dottar Rosi, ma alla fine lui mi detto "chiamami Franco"»), glissa sui topi, gli scarafaggi, la mancanza di riscaldamento e acqua potabile che hanno caratterizzato il lungo soggiorno ucraino e preferisce soffermarsi sull'atmosfera di grande collaborazione, sull'assenza di competitività e invidie: «Avevamo tutti la sensazione di partecipare a qualcosa di grande, a un'impresa come nella storia del cinema italiano se ne sono viste poche. E l'energia, la vitalità di Rosi contagiava tutti». Claudio Bisio, che nel film è Ferrari, un ladruncolo milanese finito ad Auschwitz per uno scherzo del destino, non ha dubbi: «Io sono abituato a lavorare in film prodotti con l'articolo 28, il genere: "ciak, buona la prima"; questa è stata un'esperienza completamente diversa: il set era così grande che bisognava muoversi in bicicletta, le scene si rifacevano finché non erano perfette, in un giorno si giravano trenta secondi. Gli spettatori noteranno la differenza», Una macchina organizzativa mastodontica, dunque, dietro la quale stava, presenza discreta ma indispensabile, l'aiuto regista Carolina Rosi, figlia del maestro. «Io e mio padre siamo in contatto telepatico, certe volte ho la sensazione di capire le sue esigenze ancora prima che lui stesso ne sia consapevole» afferma. «Non sono alla mia prima esperienza come aiuto regista,ma con mio padre finora avevo lavorato solo come attrice. È stato esaltante, non avevo mai imparato così tanto e così in fretta. Mi sento come se di film non ne avessi fatto uno, ma dieci».

Storie e presenze familiari anche per Massimo Ghini, che sul set ha rivissuto la triste esperienza del padre,ex partigiano deportato a Mauthausen: «Mio padre non amava molto parlare della prigionia, ma quell'evento ha segnato tutta la sua vita e quella della mia famiglia. Purtroppo è morto cinque anni fa, ma sono certo che sarebbe stato molto contento di vedermi in questo film» afferma Ghini che nella Tregua interpreta il personaggio di Cesare, il materassaio romano che nel romanzo condivide tanta parte dell'odissea di Levi: «Ho conosciuto il vero Cesare, che nella realtà si chiama Lello Perugia, molto prima di sapere che avrei fatto il film. Quando Rosi mi chiamò trovai che era uno strano scherzo del destino: conservo come un cimelio una foto mia con Perugia e mi auguro di poter andare con lui alla prima del film».

Unica donna italiana del cast, Lorenza indovina nel film è Flora, l’ebrea che, per essersi compromessa coi tedeschi durante la prigionia, è respinta dagli ex compagni di lager. Levi, l'unico che la difende, vive con lei un intenso momento d'amore. «Ero terrorizzata all'idea di dover girare una scena così diffìcile con John Turturro» ricorda la Indovina. «Avevo lavorato con Stallone e mi ero fatta l'idea che gli attori americani fossero tutti così: quattro guardie del corpo, inavvicinabili, alteri. John è stata un'autentica sorpresa, gentile, alla mano. Cedeva la sua sedia alle comparse, presenziava ai ciak di tutti, dava consigli e distribuiva complimenti.». Nessun divismo allora? «Turturro non è il tipo. Sentiva talmente il personaggio da arrivare a perdere 20 chili. È stato un Primo Levi perfetto». L'attore giusto per interpretare una storia che comincia così: «Sognavamo nelle notti feroci, sogni densi e violenti, sognati con anima e corpo: tornare, mangiare, raccontare».