Profondo Sud, luogo dell'anima prima che della geografia. Lo garantisce gabriele Salvatores, che per il suo settimo lungometraggio è andato a girare a Marzamemi, il comune più meridionale d'Italia, ma di fatto ha inventato un Sud della mente, in cui si radunano i soprusi e le speranze di questo assurdo paese. Simbolico è il luogo, simbolico è il momento: le elezioni. È la mattina di una domenica elettorale, quando quattro disperati (tre disoccupati «nostrani» più un immigrato etiope con i capelli da rasta) si barricano in un seggio chiedendo casa e lavoro, mica la luna. Nel paesino, dalla cui piazza si intravede un mare abbagliante, non c'è nessuno: ci sono solo, dovunque, le facce appese del boss politico locale, l'onorevole Cannavacciuolo (Renato Carpentieri). Va da sé che Salvatores non ci dice a che partito appartiene (il film, ficcatevelo bene in testa, non è realistico) ma i manifesti sono color blu, e qual è il partito italiano che ha il blu nel simbolo? Dieci secondì per rispondere.
I quattro disperati sono comandati da Elia (Antonio Catania), che vorrebbe tanto fare una piazzata e poi tornare a casa in tempo per sentire i risultati delle partite. Ma il vero capo diventerà Ciro (Silvio Orlando), un ex sindacalista in crisi depressiva che non parla da mesi. Nel seggio, quando i quattro irrompono, ci sono due persone: Gianni, yuppie milanese con tanto di telefonino cellulare (Gigio Alberti), e Lucia, una stupenda fanciulla che è lì per fare il proprio dovere di cittadina (Francesca Neri). Elia è subito accomodante: voi potete andarvene, non ci servono ostaggi. Ma Ciro legge la carta d’identità di Lucia e riacquista la parola: ma lo sapete, come fa di cognome la signorina? Certo, Lucia è proprio la figlia di Cannavacciuolo, ormai «emigrata» al Nord ma tornata al paesello per votare, e allora tanto vale fare sul serio: barricarsi per bene, impugnare armi autentiche, e far venire la tv grazie al telefonino di Gianni. Così l'avventura dei quattro prosegue, fino a notte, con l'onorevole imbufalito, i carabinieri che non sanno che pesci pigliare, il paese che organizza cortei a sostegno degli assediati. E con Ciro sempre più incazzato che ripete a Lucia: «Non ci dovevi tornare, al Sud»...
Il film è riuscito solo a metà, ma personalmente, sappiatelo, lo difenderemo ad oltranza. Non sempre bisogna pensare ai valori eterni della storia del cinema: a volte è anche giusto considerare i film «figli» del momento in cui escono, e Sud è il film giusto al momento giusto, per la nostra sderenatissima Italia. Attenzione: non ci stiamo riferendo alle polemiche di questi giorni sugli americani che si mangiano il mercato. Salvatores non ha bisogno di essere «difeso» in questo senso, dopo gli ottimi incassi di Puerto Escondido. No, se ci passate il termine la nostra approvazione per Sud è strettamente politica: siamo felici che nell'Italia del '93 ci sia un film che parla dei terremoti, dei miliardi mangiati dall’lrpinia-Gate, del voto di scambio, degli immigrati extra-comunitari; che abbia in colonna sonora le voci dei centri sociali, i rap degli Assalti Frontali e dei 99 Posse; e che questo film intitolato al Sud esca proprio nei giorni in cui la Lega Nord sta facendo, a Milano, le note figuracce legate allo sgombero del Leoncavallo.
Sì, siamo contenti che Sud esista. Dopo di che, pensiamo sia un film imperfetto, per scelte che Salvatores ha fatto, crediamo, consapevolmente. Lui e gli sceneggiatori Bernini e Pasquini avevano di fronte a sé due vie: fare un dramma tragicissimo, alla Pomeriggio di un giorno da cani, o un film selvaggiamente comico-politico, stile Totò è Peppino divisi a Berlino. Hanno voluto percorrerle entrambe, coscienti che la commedia è nei cromosomi di attori come Orlando, Catania, Bisio o Alberti. Il risultato è che Sud è stilisticamente squilibrato: girato con linguaggio a metà fra lo spaghetti-western e il videoclip, oscillante fra l'apologo super-arrabbiato e la comicità cabarettista. Però, proprio queste contraddizioni sono in ultima analisi la forza del film: che assume in modo nettissimo, spesso quasi didascalico, la rabbia di tutti gli emarginati d’Italia, all'interno di una coproduzione della Penta di Berlusconi e Cecchi Gori. Salvatores e il suo produttore-amico-complice, Maurizio Totti, lo sanno benissimo: hanno fatto un film «contro» con i soldi dell'avversario, e Sud rispecchia questa schizofrenia in modo così netto e consapevole, da diventare il perfetto simbolo di un'Italia di transizione, in cui tutti i contorni ideologici sono sfumati (o deformati?). Un'Italia in cui il regime fa «mercato» e «cassetta» anche con la propria opposizione. Un'Italia - e scusate la battuta, ma il nerazzurro Salvatores la capirà - in cui solo chi ha pagato l'abbonamento alla berlusconiana Telepiù potrà vedersi l'Inter in tv domenica sera, senza essersi nemmeno tolto la soddisfazione di aver occupato un seggio elettorale. E non è forse il colmo?