Il 22 agosto 1972, tre poveracci, reduci dal Vietnam e profondamente disadattati, tentarono una maldestra rapina, un po' per scherzo, un po'per non morire di fame. L'awentura finì malissimo, e, esaltata dalla stampa, divenne, tre anni dopo, il film di Sidney Lumet che ha reso celebre Al Pacino. Ed è inevitabile pensare a Quel pomeriggio di un giorno da cani vedendo Sud di Gabriele Salvatores. Unità di luogo, di tempi e di intenti da parte del gruppetto di disperati che invade un seggio elettorale del profondo Sud con intenzioni puramente dimostrative, e si trova coinvolto in una storia molto più grande, che rischia di trascinare un intero paese (visto che Salvatores, nelle sue note introduttive al film, tira in ballo anche Shakespeare. si può ben citare il Giulio Cesare) "alla rivolta e alla rabbia".
Con Sud Gabriele Salvatores, che ha scritto il film assieme a Franco Bernini e Angelo Pasquini, ha fatto un'inversione apparente di centottanta gradi. Ha rinunciato ad ambientare la sua storia, come è accaduto per Mediterraneo e per Puerto Escondido - altrove, all'estero, in quei posti remoti e fuori dalla realtà che rappresentano, e sono, i topoi, i luoghi simbolici e mentali della fuga. E ha scelto la concentrazione quasi teatrale (non a caso chiama ripetutamente in causa anche Brecht) di una piazza siciliana, quella di Marzamemi, il paese più meridionale d'Italia, scenograficamente costruita a nascondere il mare che pure gli sta alle spalle. Anche se Marzamemi nel film non rappresenta se stessa, ma. appunto il Sud, che qualsiasi dizionario definirebbe "la parte meridionale di una nazione, di un continente", ma che Salvatores chiama «il luogo gramsciano dove vivono i dimenticati del mondo».
Come questa dichiarazione, anche Sud, sotto la sua crosta brillante e le sue invenzioni tecniche, soffre di un intento didascalico troppo facilmente leggibile, fino afpunto di fare dei suoi personaggi altrettanti caratteri, simbolo della commedia dell'arte della vita civile italiana. Ecco dunque l'onesto sindacalista cui lo sfacelo della vita politica e la disoccupazione hanno fatto perdere la parola (Silvio Orlando, che si dispera «dov'è il partito? Puff! Scomparso» ed è tanto bravo a fare l'innocente e l'onesto che vorremmo vederlo presto a fare il cattivo o il figlio di puttana). Ecco Elia (Enzo Catania), che vorrebbe un atto dimostrativo ma senza violenza. Michele (Marco Manchisi) che sotto la scorza civile nasconde le tare del maschilismo e del razzismo. Munir (Mussié Ighezu), l'"extracomunitario" - dio mio, che parola! - nobile e nostalgico. E poi Gianni, il varesotto tutto Rolex, cellulare, spider (sarà leghista?) interpretato da Gigio Alberti.
La bella del Sud che è passata a Nord e sa giocarsi di tutti, ma, forse, avrà un sussulto di coscienza (Francesca Neri). Il losco uomo politico maestro di brogli e di manipolazione degli uomini (Renato Carpentieri). Il telecronista d'assalto che blandisce e insulta i poveracci e contrappunta le interviste ai potenti di cenni d'assenso (Claudio Bisio). Infine due cori: la gente, che compare improvvisamente dal nulla sulla piazza assolata, al ritmo rap della debordante musica di Assalti frontali e Posse 99, e i carabinieri, che, usciti dal loro stereotipo di stupidità e dall’avversione per i caramba, sono moderati, civili, e, per così dire, costretti a fare quello che fanno dalle regole del gioco (che sono chiare: «Colonnello, questo paese lo governiamo con la televisione, non con i carabinieri», grida l'onorevole Cannavacciuolo al paziente e saggio comandante delle operazioni che vorrebbe chiudere decentemente l'assurda sceneggiata). E, a proposito di cori: è “’O sole mio", e non l'Internazionale, che cantano i rivoltosi asserragliati nel fortino della scuola. Ironia affettuosa o vizio inestirpabile da commedia all'italiana?
Più che gli eventi, insomma, in Sud, contano le "maschere", le posizioni, le idee, gli enunciati, che azzerano ogni suspense circa gli esiti della storia. Brecht non si sposa benissimo con la commedia italiana. Ed è la ragione per cui, con tutta la generosità d’intenti, il film parte bene finché dispone le sue carte, ma si siede presto mentre le gioca, sgranando scena dopo scena di un teatrino didascalico, che denuncia i meccanismi dei brogli proprio quando quel tipo d’Italia si spera sia stata cancellata per sempre, e propone un modello di protesta perlomeno inquietante proprio alla vigilia di un appuntamento elettorale a dir poco difficile.
Tanto che viene da chiedersi se, anziché parlare di una condizione del Sud su cui il consenso è garantito, per il grande cinema civile cui aspira Salvatores non sarebbe stato più originale e coraggioso andare piuttoso a indagare scomodamente quel Nord – il luogo dove vivono i protagonisti del mondo? - che il regista milanese dovrebbe conoscere bene e che è oggi la fucina dove si giocano i destini di casa nostra.