La piazza assolata e polverosa di un paesino del Sud. C'è un «cattivo»: il boss politico locale che ha l’abtudine di truccare le elezioni. Ci sono i ribelli: un mucchietto selvaggio di quattro uomini che, armi in mano, si barricano nel seggio elettorale. Vogliono impedire che si svolgano le elezioni. Per protesta. Una protesta generica e neanche troppo convinta, almeno all'inizio. Eppure i quattro, quasi loro malgrado, si troveranno a vivere una mattina, un pomeriggio e una sera di un giorno da cani.
Saranno anche accusati di sequestro di persona perché, per caso, rinchiusa nel seggio finisce la bella figlia del cattivo. Lucia (Francesca Neri) è nata nel Sud, ma vive al Nord. E’ socialmente dalla parte opposta dei suoi rapitori (e lo dimostra il fidanzato yuppie a cui si accompagna), ma non condivide la mentalità mafiosa del padre. E poi c’è un colonnello dei carabinieri quarantenne, ligio al dovere e ripsettoso delle leggi, che potrebbe essere ricalcato sul modello del giudice Antonio Di Pietro…
Tra vecchio potere politico e «nuovismo» che cerca di conciliare rinnovamento e pace sociale, lo scontro è aperto. In più, a complicare la faccenda arriva un giornalista tuto retorica e telecamera, convinto che uno spaccato inatteso di tivù-verità sia il suo asso nella manica. Così, tra metafora e realtà, questa drammatizzazione della situazione italiana di oggi è la trama di Sud di Gabriele Salvatores, che uscirà nelle sale il prossimo 15 ottobre.
Non è un film neo-neorealistico né un tradizionale film Politico di denuncia sui guai del Meridione. «Per quello ci sono le inchieste giudiziarie e i giornali: sappiamo già tutto quello che c’è da sapere» dice il regista di Mediterraneo e Puerto Escondido. «I protagonsiti di Sud protestano perché vivono in baracche disumane e non hanno visto un soldo dei miliardi promessi per la ricostruzione del dopo-terremoto. Quale? Non uno in particolare. Uno dei tanti. E il terremoto reale è il simbolo dello sfascio generale, naturalmente. I quattro uomini, quattro cani sciolti (un ex sindacalista, due disoccupati disorganizzati. un extracomunitario), chiedono una casa e un lavoro. Ma nel film non c’è riferimento esplicito alla cronaca. E’ stato girato a Marzamemi, in provincia di Siracusa, ma potrebbe svolgersi ovunque nel Sud, dalla Basilicata alla Campania... Il tema centrale è il risveglio. Una reazione, finalmente ai soprusi. Come si diceva una volta, una presa di coscienza. O anche semplicemente una presa di parola. Non a caso, il capo dei rivoltosi, l’ex sindacalista Ciro (Silvio Orlando), è reduce da un esaurimento nervoso che gli ha tolto la favella. Diventare eroe per un giorno, dare senso e seguito alla propria rabbia lo farà tornare a parlare».
Risveglio. Presa di coscienza In una parola impegno. Ma Gabriele Salvatores non era il regista dai due chiodi fissi, l'amicizia virile come valore e il viaggio come dimensione ideale di vita? Non era il cantore di una generazione, la sua, quella dei trenta-quatantenni, indecisi tra la fuga verso luoghi esotici e la rassicurante noia di un tran-tran borghese?
«Mi sono un po’ stufato di raccontare quelli come me. Ho detto quello che avevo da dire sull'argomento» ammette il regista, 43 anni, aspetto ascetico e tono di voce pacatissimo, da monaco zen, senza cenni di nevrosi. «I miei film precedenti, in particolare quelli che hanno Diego Abatantuono per protagonista (MarrakechExpress, Turné, Mediterraneo, Puerto Escondido) sono una specie di serial involontario che si è concluso. Adesso sento il bisogno di raccontare altre cose. Ho scelto il Sud, un Sud desolato come le città-fantasma dei western, perché è un confine, tracciato nelle nostre anime e nelle nostre coscienze, guai a considerarlo solo un punto geografico» continua Salvatores che negli ultimi mesi si è apertamente schierato contro la Lega Nord.
Nel corso di numerose interviste, che hanno provocato polemiche, in particolare il regista ha difeso il centro sociale milanese Leoncavallo dagli attacchi e dalle minacce di sgombero del sindaco, leghista, Marco Formentini. «Da quando ho vinto l'Oscar (nel 1992, per «Mediterraneo» come miglior film straniero, ndr) mi sono sentito addosso una maggiore responsabilità. Ecco perché intervengo anche su temi non strettamente cinematografici, ecco perché voglio parlare di politica».
Insomma, per Salvatores è un momento di svolta: non perde occasione per rivendicare il suo passato di militante dell'estrema sinistra, ricorda con rabbia ed entusiasmo i suoi esordi con il teatro dell'Elfo proprio nella sede del Leoncavallo, si dichiara pronto ad agire contro quello che considera il nuovo nemico della sinistra, cioè la Lega.
Nel cinema questo atteggiamento di Salvatores si è tradotto in Sud, un film che, rispetto alle opere precedenti, è almeno spiazzante. Niente spazi aperti, nessuna concessione all'esotico, poche al comico, alla commedia. È un film serrato, duro, che non consola. È un film provocatorio, che certo farà discutere. A partire dalla colonna sonora: rap prodotto da gruppi dei centri sociali del Sud, come i 99 Posse di Napoli e gli Assalti Frontali di Roma. Musica politica, severa, che commenta il film come le canzoni degli spettacoli brechtiani. E, a dir la verità, tutto Sud ha l'aspetto rigoroso di un testo teatrale brechtiano.
Non che sia un film povero, anzi. E’ costato più di 4 miliardi di lire, ed è visivamente assai ricco. Basti pensare all’uso intenso della steady-cam che dà alla narrazione un ritmo concitato, nevrotico. Ma, certo, chi si aspetta la gragnuola di battute di Marrakech Express o l’atmosfera paradisiaca che dava il tono a Mediterraneo e Puerto Escondido potrebbe rimanere deluso. Insomma, c’è da temere che il numeroso pubblico tradizionale di Salvatores (Puerto Escondido, il film italiano più visto della stagione scorsa, ha incassato 14 miliardi di lire) non apprezzi le novità. Salvatores ha cambiato sceneggiatori: non più Enzo Monteleone, ma Franco Bernini e Angelo Pasquini. E, nel cast, manca la star dei film precedenti: Diego Abatantuono. «Non abbiamo litigato, ci siamo solo presi una vacanza l’uno dall’altro. Torneremo a fare delle cose insieme ma nella sceneggiatura di Sud non c’era nemmeno una parte adatta a Diego, tutto qui. Paura di fallire al botteghino? Diciamo che ho messo in conto la possibilità di avere un gruppo di spettatori più mirato. Mi piacerebbe che il pubblico raccogliesse l’invito al risveglio contenuto nel film. Non conto tanto sulla mia generazione che le sue scelte collettive, nel bene e nel male, le ha già fatte. Mi interessa di più dialogare con i ventenni. Ne ho conosciuti molti impegnati nelle attività dei centri sociali, nel volontariato: non sono certo un movimento organizzato, ma sono interessanti e potrebbero riservare delle sorprese, politicamente. Non sono affatto amorfi o ignoranti come qualcuno vorrebbe far credere».
Il tranquillo pacifismo di Mediterraneo ha cambiato segno. Sud è, anche tecnicamente, il film più faticoso di Slavatores. Girato prevalentemente in interno, nel seggio elettorale occupato, tranne qualche sequenza sulla piazza, è tanto claustrofobico e fermo quanto i film precedenti erano on-the-road e permeati di una certa leggerezza dell'essere e del vivere. In Sud si sente la scelta di campo precisa di Salvatores: dalla parte dei deboli, comunque.
A qualcuno questa presa di posizione potrà puzzare di muffa, di vecchio stile sessantottino. Salvatores non si lascia scalfire dalle critiche e cita una frase di Albert Camus: «Starei comunque con i perdenti, non foss'altro per la arrogante prepotenza dei vincitori». Ma la miglior difesa del regista sta nel fatto che Sud non è un film a tesi.
I quattro protagonisti non appaiono certo come eroi proletari. Silvio Orlando, Antonio Catania, Marco Manchisi e l'attore eritreo Mussié Ighezu interpretano con convinzione quattro diseredati senza ideologia, senza partito, privi persino di un linguaggio che abbia qualcosa della tradizione rivoluzionaria. Sono furiosi, non c'è enfasi nel loro gesto. Solo una disperazione cieca e persino un po' fessa.
La retorica, l'enfasi, il tentativo di etichettare politicamente i quattro desperados appartengono di diritto a un altro personaggio del film: il giornalista d'assalto, eccitato dall'idea dello scoop. Lo interpreta, con perfetti tempi comici, Claudio Bisio, in una parodia intelligente che riproduce un po' il cinismo di Emilio Fede e un po' la mistica della piazza stile Samarcanda (vedere l'intervento di Michele Santoro nel riquadro).
«Questo della tivù vampira non è un tema secondario» avverte Salvatores. «Già in Puerto Escondido, alla fine del film, Diego Abatantuono sparava al televisore. In Sud approfondisco la questione: la mia non è tanto una critica a Samarcanda o a trasmissioni del genere. È una riflessione sull'uso politico della tivù. E anche questo è un invito al risveglio. Indirizzato a chi lavora nei mass media e non è consapevole del potere esplosivo che gestisce, spesso malamente».
E, a proposito, la battuta-chiave del film è: «Se ti muovi rapido non vieni nelle foto». È una conclusione a cui arrivano i quattro protagonisti, nella flebile speranza di non essere svergognati e denunciati sui giornali. Che cosa vuol dire, in realtà, per Salvatores? «Che se attraversi la vita più velocemente della luce, nessuno ti può schedare, nessuno ti può rubare l'anima, nessun trombone televisivo può fare del pietismo spettacolare su di te».
Sud , ovvero l'elogio della velocità. D'altronde, la principessa Sheherazade, come ricordava Italo Calvino nella sua lezione americana sulla rapidità, non si è forse salvata la vita proprio perché conosceva il segreto del ritmo del narrare, l'equilibrata alternanza tra continuità e discontinuità? Salvatores, con questo film sincopato, veloce come un programma di computer - e montato con il rapidissimo sistema Avid, l'ultima trovata in fatto di tecnologia cinematografica - invita alla velocità di reazione. Mai fermarsi troppo a calcolare le mosse e riflettere, sembra dire il regista, meglio seguire i propri istinti di ribellione e reagire sempre, con tempismo.
Anche quando, come nel caso dei protagonisti di Sud, la sconfitta è scritta nel destino.
No, non mi sono riconosciuto nel personaggio del giornalista fintamente d’assalto. Naturalmente non posso escludere che anche «Noi di Samarcanda» si sia stati cinici qualche volta e narcisisti, di sicuro, più spesso. Ma così ossequienti del potere, mai. Piuttosto, la nostra condizione è stata assai simile a quella dei rivoltosi del film. «Tre disoccupati e un africano» dicono di sé «hanno fermato l’esercito italiano». Ma anche considerano amaramente: «A che serve avere ragione quando poi sei morto?».
Conosciamo bene l’ebbrezza della ribellione e la depressione che provoca l’isolamento, l’esaltazione dell’intransigenza e il desiderio di negoziare le condizioni della resa. Non è stato facile né scontato offrire un microfono a chi raccontava la sua disperazione, facendosi strada tra i depositi melmosi di Tangentopoli. Per descrivere la rivolta abbiamo dovuto parteciparvi.
Sud è l’urlo che attraversa la lava grigia dei terremoti, l’immensa colata d’asfalto che ha seppellito il coraggio del gesto individuale, l’assunzione di responsabilità e il bisogno di libertà. «Il lavoro non c’entra» spiega Francesca Neri-Lucia al suo compagmo «è solo una questione tra lui e mio padre».
Ma lui, Silvio Orlando, sindacalista in smobilitazione, non punta la pistola contro i Cannavacciuolo, deputati della corruzione, e nemmeno contro i carabinieri. La punta contro i fantasmi che gli hanno annebbiato la mente, costringendolo a un lungo silenzio. E scopre così la terapia della ribellione e il valore della parola. Più che i brigatisti degli anni di piombo, evoca Libero Grassi e il giudice Borsellino, la difesa intransigente e ostinata del diritto. Umberto Bossi dovrebbe andare a vedere questo film per trovare l’onestà di ammettere che la rivoluzione dolce italiana è cominciata dalle piazze di Capo d’Orlando, che senza il sacrificio del giudice Livatino, Miglio sarebbe un signor nessuno.
Del Sud è stata la rivolta e del Nord sarà la vittoria. Si resta sempre prigionieri dei gesti isolati. Non per propria colpa: e nemmeno per non aver adottato «la linea giusta». Si perde perché sopravviene la paura degli altri di ascoltare e la propria paura di non sopportare la solitudne, la moderazione ci invade come una malattia. Ho detto che vincerà il Nord. Ma non penso a un territorio. Dopo la mafia e le tangenti, dopo Cirino Pomicino e Pillitteri, restano scarse possibilità di riconoscere i luoghi. Salvatores descrive il Sud come un campanile con l’orologio fermo in una linea di vecchie case prima del mare. Tra quelle case c’è il seggio dentro il quale si sono asserragliati i ribelli, aspettando l’inevitabile sconfitta. Vinceranno l’efficienza e la produttività ma non basteranno a portarci fuori dalle macerie del vecchio mondo. Il Nord ha bisogno di Sud, l’organizzazione del coraggio, la comunità dell’individuo.
«Ho ricevuto l’ordine di attaccare, questi sciagurati hanno fatto scuola» dice il carabiniere prima dell’assalto finale. Eppure, il silenzio è stato rotto e le parole non potranno essere cancellate, pietre sulle quali altre pietre saranno poggiate. Chi vorrà rivedere il mare dovrà salirci sopra.