Prefisso per il Messico: 0052. E poi il numero del Mission San Felipe a Oaxaca, dove alloggia l'équipe del film «Puerto Escondido», o dell'hotel El Presidente, dove sta, invece, il regista, il 41enne Gabriele Salvatores. L'appuntamento telefonico è per le 3 del mattino, ora italiana, le 20 in terra messicana. Rispondono voci lontane, raddoppiate e confuse dall’eco dell'intercontinentale. Voci spagnole, voci che strascicano un italiano improbabile ma sollecito, alternato all'inglese smozzicato dei tropici. «El senor Salvatores no està aqui. È piovuto molto in questi giorni, è due ore in ritardo sulla lavorazione». Spunta l’alba a Milano quando il telefono incrocia finalmente la sua voce, stavolta vicinissima, nitida e metodica come sempre, nulla che lasci trasparire la fatica del set appena abbandonato. La cortesia all'antica di Salvatores non ammette cedimenti. Il giorno dopo parte alla volta di Los Angeles, assieme a Diego Abatantuono, per assistere alla notte degli Oscar, ma mette il silenziatore all'emozione: «La considero una vacanza, come Diego, cui interessa soprattutto vedere Disneyland». Tutto qui? «Ma no, come negare il Mito dell'Oscar? Un po' tramontato ma pur sempre un Mito, e andare a vederlo da vicino fa piacere». Eppure, il cuore e la testa di Salvatores, in questo momento, più che al Dorothy Chandler Pavillon di Hollywood, appartengono a Oaxaca, una città di 260.000 abitanti circondata dalle montagne della Sierra Madre meridionale, che le guide descrivono come «un avvincente mélange di elementi indios e spagnoli». È uno dei luoghi più importanti attraversati dal viaggio messicano dei protagonisti di «Puerto Escondido»: Diego Abatantuono, Claudio Bisio, Valeria Golino, Renato Carpentieri e, in una breve apparizione, Fabrizio Bentivoglio. Prodotto dalla Penta e dalla Colorado Film, tratto dal romanzo omonimo di Pino Cacucci e sceneggiato da Enzo Monteleone con la collaborazione di Salvatores e Abatantuono, il film prende nome da un luogo reale, un piccolo porto di pescatori sull'Oceano Pacifico, non lontano dalla frontiera con il Guatemala. Ed è proprio tra i bar e i chiassosi locali di questo centro marino che trova rifugio Mario (Diego Abatantuono). A Milano era un bancario felice e appagato, ma da quando gli è capitato di vedere il commissario Viola (Renato Carpentieri) ammazzare due uomini, la sua vita è stata travolta. Fuggito in Messico per salvarsi, a Puerto Escondido incontra Anita (Valeria Golino) e Alex (Claudio Bisio), due italiani espatriati, che si ingegnano a vivere. «Meno consumi, meno lavori e più sei felice», sostiene Alex, e anche Mario, pian piano, condivide questa filosofia, diventa abile a correre sul filo sottile che separa la legalità dall'illegalità. Fa fatica, ma poi intuisce che la vita dell'Occidente opulento e consumista non è l'unica possibile: quel benessere, forse, è solo illusione. Perfino il commissario Viola, che insegue Mario a Puerto Escondido, precipita in questo vortice di rivoluzioni personali: incontra una donna del luogo, apre un locale, in Italia non tornerà mai più. Non a caso il film è dedicato «A tutti quelli che sono convinti di essere felici». Quando inizia l'intervista a distanza, Salvatores è appena uscito da una pizzeria, notizia che ha qualche cosa a che fare con il suo film. «Qui è davvero pieno di italiani e assomigliano tutti al protagonista del mio film.
Si scappa in Messico perché qui è facile far perdere le tracce, legalità e illegalità convivono. E poi, per la generazione degli Anni '70 i territori di fuga sono stati due: l'India mistica e il Messico magico. Questo paese ti eccita all'inizio, poi arriva violenta la malinconia. Tutti nella troupe avvertono questa altalena di umori e forti contrasti, accentuata anche dalle condizioni in cui lavoriamo. Oaxaca, ad esempio, è a 1600 metri di altezza con una temperatura di 40°. Tutto è più faticoso».
Insomma, «Messico e nuvole, la faccia triste dell'America», come dice Paolo Conte?
«Sì e non solo per le nubi che corrono in questi cieli straordinari», conferma Salvatores, «ma soprattutto perché in Messico ti senti come una nuvola. Devi lasciarti portare dal vento, se resisti vieni stritolato. Pian piano devi imparare a vivere secondo il "mexican time", che non è un tempo più lento come si crede, è solo un respiro diverso, più riflessivo».
Già prima di cominciare a scrivere il film, Salvatores, Abatantuono e lo sceneggiatore Enzo Monteleone hanno percorso in macchina e su scassate corriere la strada dei protagonisti: da Puerto Escondido verso il centro del paese, lungo la Sierra Madre del Sur fino a Oaxaca, la «città magica», considerata tale per la tradizione del pejote, il fungo allucinogeno. Per arrivare infine al deserto, oltre San Miguel de Allende, a Real de Catorce. «Puerto Escondido», dice il regista, «è un luogo che inganna e in questo senso è perfetto per il film. Sì, come si legge sulle guide, c'è il mare più bello del Messico e centinaia di meravigliosi cormorani e fenicotteri. Ma poi ti accorgi del tentativo solo volgare e povero di renderlo luogo turistico. E poi vedi la miseria, la mancanza di lavoro, ti accorgi che la vicinanza con la frontiera l'ha reso il posto ideale per avventurieri e truffatori. Si chiama "Escondido" non a caso, è ideale per sparire. Magari nel pieno delle sue notti movimentate da locali, alcool, musica caraibica. Se si cerca il divertimento non c'è problema, ma l'allegria è un pò forzata, dietro si intravvedono disperazione e disagio. La musica salsa e le rumbe del film sono registrate dal vivo proprio in questi bar. Sarà un suono "sporco", non depurato in sala di incisione».
Un film, una sceneggiatura — gli chiedo — sopravvivono indenni ali'esperienza sul posto? «Naturalmente no, il mio modo di lavorare lascia spazio alle emozioni del momento. Tramonti così, ad esempio, non ne avevo mai visti, durano anche tre quarti d'ora, non ho resistito alla tentazione di filmarli. Mi aspettavo un Messico simile a quello dei film di Sam Peckinpah, "Voglio la testa di Garcia" per esempio, e invece il mio è più colorato, più tropicale. E poi, ad ogni passo, si incontrano la difficoltà quotidiana di vivere, le facce tristi che diventano improvvisamente protagoniste. L'emozione che ti comunicano gli indios, i meno contaminati culturalmente, i poveri del Messico. E le "brujas", le streghe. Qui a Oaxaca ho conosciuto Maria Sabina, da lei sono andati i Rolling Stones e perfino Walt Disney. La scena dei "funghi" in "Fantasia" pare sia nata dal loro incontro. E chissà che anche la scena in cui Abatantuono prende il pejote, vede un enorme falco e "volano" assieme tra le rovine azteche non sia influenzata dai miei colloqui con la bruja...».
Di sicuro ci saranno più «visioni», ma in «Puerto Escondido» mancheranno le classiche partite di calcio dei film di Salvatores. «Abbiamo giocato a pallone fuori dal set, ma non in scena. Questo non è un film sull'amicizia come i miei precedenti. C'è solidarietà, che è una cosa molto diversa. I tre protagonisti si stringono l’uno all'altro per paura, per bisogno, perché sono emarginati. Valerla Golino nel film è "il terzo amico", non è la donna fra i due. Sta con Bisio, Diego non si innamora di lei. In questo film provo ad essere un po' più duro, corrisponde alla rabbia che cresce in me da qualche tempo. Sento che bisogna cominciare a dire di "no", a rifiutare una situazione sociale troppo degradata. Condivido la posizione di Bisio nel film. "In Italia", tenta di convincerlo Abatantuono, "si vive bene, felici, abbiamo le donne più belle del mondo, il campionato più bello del mondo!". "Sì", risponde Bisio. "E per far contenti quei pochi, milioni stanno malissimo; per far bello quel campionato, altri centinaia di campionati fanno schifo'". Alla fine del film faccio sentire la versione vera di "Guantanamera" che dice: "Voglio dividere la sorte con i poveri della terra; amo più un rio della Sierra che il grande mare arrogante"».
Vista dal Messico com'è l’Italia? «Lontana. Tutto si relativizza. Quando raccontavamo dell'omicidio Lima, nessuno capiva veramente. Qui si spara per le strade ogni giorno, la politica si fa cosi. D'improvviso, la consapevolezza: è l'Italia che è violenta come il Messico. Questa considerazione è entrata nel film: quando un ragazzine, arma in pugno, ruba il sacco di marijuana, Bisio esclama: "In Italia succede eguale"». E tuttavia, Salvatores è un po' stufo — dopo «Mediterraneo» — di venir considerato un «teorico della fuga». «In tutti i miei film è vero, c'è un viaggio, ma è la ricerca di un altrove diverso da quello in cui si è abituati a vivere, la ricerca del cambiamento. Con l'elogio della fuga di "Mediterraneo" volevo solo dire, come Chet Baker: "Let's Get Lost", lasciateci perdere, lasciate che ci perdiamo. Non fateci giocare a tutti i costi!». Ride Savatores: «Astutillo Malgioglio, ex-secondo portiere dell'Inter, quando giocava nella Lazio ha fatto una cosa splendida. Il pubblico lo insultava a sangue per un errore, lui si è tolto la maglia, ci ha sputato sopra e se ne è andato. È così che dev'essere: se il gioco non ti piace, è meglio che te ne vai!».