Salvatores, Messico e “naufraghi”

Viaggio sull’avventuroso set di “Puerto Escondido”, nuova pellicola dell’autore premiato a Los Angeles con la statuetta
Abatantuono, la Golino, Bisio e Carpentieri nella carovana di sbandati che fuggono nel deserto a quota 3 mila. Un commissario omicida e un bancario scomodo testimone: il giallo ha per comparse la folla di scugnizzi indios

Testata
Corriere della Sera
Data
8 aprile 1992
Firma
Alessandra Farkas
Immagini
Immagine dell'articolo sul Corriere

All'alba un ragazzo italiano di Udine con le treccine da «rasta» e la borraccia alla cintola imbocca a piedi la deviazione per Real De Catorce: 30 chilometri fino a Cedral e poi altri 25 su per la strada scoscesa di pietre e polvere a picco sull'arido deserto tra Monterrey e San Luis Potosì. Al tramonto cammina ancora di gran lena, sotto la pioggerellina calda del Tropico del Cancro, mentre l'effetto energizzante del «peyote» gli da la forza persino di canticchiare.

Quando finalmente arriva in cima alla montagna scopre che altri vi hanno piantato la bandiera prima di lui: Valeria Golino, Diego Abatantuono, Claudio Bisio, Renato Carpentieri e il resto della troupe italo-messicana di «Puerto Escondido», il film che Gabriele Salvatores (Oscar per «Mediterraneo») ha voluto dedicare «a chi scappa». Come lui, che da quando ha lasciato Udine ha tagliato tutti i ponti (cade dalle nuvole quando gli parlano delle elezioni in Italia) ed è venuto a «perdersi» o a «trovarsi» tra gli stessi indios e «peyotes» che iniziarono Carlos Castaneda ai misteri della «realtà non ordinaria».

Vengono a frotte dall'Europa in quest'impervia e ascetica mecca a ridosso del sacro monte Wirikuta, ai piedi del quale gli indios Huichol depongono ancora offerte agli dei e dove il potentissimo cactus allucinogeno «peyote» alligna ed è ritualmente vendemmiato. Sono soprattutto italiani, francesi e tedeschi. Gli americani preferiscono le megadiscoteche di Cancun e i grattacieli con aria condizionata di Acapulco, dove s'arriva senza sudore.

Questo invece è un viaggio lungo e tortuoso: molti aerei, via via più piccoli e traballanti, e poi l'auto in affitto se vuoi spendere 1.300 pesos al litro di benzina (circa 650 lire). I più salgono sui vecchi autobus che percorrono la statale 57 tra San Luis Potosì e Saltillo. Tantissimi camion e poche auto che sfrecciano lungo «café» luridi e sgangherati, rancheros con baffi, asino e sombrero (sembrano usciti da una pubblicità del caffè), fogne aperte, panni stesi e cactus «alcaciofas»: candelabri enormi dalla «fiamma» bianca commestibile.

Alle porte di «El Huizache» spuntano gli accampamenti indios: carni fumanti, «molcahetes» (mortai di pietra ruvida) e rudimentali bancarelle con pelli di serpente stese al sole. «Sono "mestizos" — spiega il conducente Oscar Javier Garcia Romo —, vengono a piedi dal deserto per vendere "huizache", le pelli di serpente che in pillola fanno bene contro il cancro». Un'india «yaquì» col volto devastato dalle rughe e quattro strati di stracci coloratissimi addosso vende «nopales»: foglie di cactus «tuna» pelate e saltate in padella con cipolla, cilandro e peperoncino piccante, una delizia indescrivibile oltreché, pare, ineguagliabile rimedio contro il mal di fegato.

«Ne abbiamo tutti bisogno dopo due mesi di Messico», scherza Renato Carpentieri, che in "Puerto Escondido" interpreta il ruolo del commissario Viola, deciso a far fuori il bancario Mario Tozzi (Abatantuono), unico testimone (involontario) di un suo delitto. «Per fortuna — aggiunge calcando il suo accento napoletano — sul set abbiamo mangiato fusilli e pummarola tutti i giorni».

Eppure il giorno prima del ciak finale i cuochi messicani, che da settimane alleviano la nostalgia culinaria della troupe, sparecchiano prima del solito: il tempo stringe e ci sono ancora scene importanti da girare. Si comincia all'entrata del tunnel Ogarrio, due chilometri e mezzo scavati a mano nel monte Barriga de Piata («ventre d'argento»), fino all'inizio del '900 la più ricca miniera della «Nuova Spagna».

La segretaria di produzione corre trafelata verso Salvatores, che dirige da un minischermo. Alex (Claudio Bisio) e Anita (Valeria Golino), entrambi in bragone di tela stile odalisca e scarponi, trattano con due locali l'acquisto di 10 chili di marijuana. «Quell'omino è completamente andato», avverte. Il volto zen del direttore della fotografìa Italo Petriccione si contrae; il fonico Amedeo Casati barcolla per un attimo sulla giraffa del microfono. Dietro e davanti alla cinepresa corre un fremito improvviso di nervosismo.

Ma dura poco: «Va bene, sostituiamolo pure», accondiscende alla fine Salvatores. La comparsa indios esce barcollando di scena, il volto verde e stralunato (peyote, tequila o cirrosi?). Avanti un altro, c'è solo l'imbarazzo della scelta tra la folla di uomini, donne e bimbi che s'accodano all'allegra carovana ovunque vada. «L'armonia qui sul set è straordinaria — commenta il direttore di produzione messicano —, dopo aver lavorato tanto con gli yankees, è un vero miracolo».

Grazie anche alla lingua: nessuino sapeva quella dell'altro prima di iniziare il film ma alla fine tutti si sono capiti. «Abbiamo inventato l'"itagnolo": funziona da dio!», scherza Maurizio Totti, coproduttore del film con Vittorio Cocchi Gori.

Aiuta a fare sbocciare la passione extraconiugale (O.K., niente nomi) e a ispirare le pazzesche e infinite toilette della carnosa delegata sindacale messicana. Soprattutto serva ad apprezzare la musica della bravissima Majca e del suo gruppo «El Son y la Rumba», 8 pezzi per la colonna sonora tra cui «Hasta siempre comandante».

«Mi sono divertita da morire in questo film — incalza la Golino, bella, fresca e senza una briciola di divismo e artificio —. Ho avuto solo un po' di mal di pancia, come tutti del resto».

L'unico immune dalla «vendetta di Montezuma» è Fabrizio Geisser Celesia di Vegliasco. Timberland, valigia Gucci di cinghiale, braccialetti multicolori e una maglietta che lancia un Sos per il candeggio, il nobile broker ha lasciato Ginevra «per una vacanza d'agriturismo trascendentale». È il solo, dicono, ad aver incontrato lo stregone Don Juan di Castaneda.

Sabato pomeriggio: ultimissimo ciak. «Abbiamo finito. Ma al cimitero, e per scaramanzia andiamo a girarne un'altra», grida Salvatores dalla jeep che s'inerpica per Real De Catorce, 3 mila metri d'altezza e circa 500 anime contro le 40mila dei tempi in cui era la capitale dell'argento, citata dal Barone von Humboldt e frequentata da Caruso. Che — quasi come nel «Fitzcarraldo» di Herzog — cantò nel suo splendido teatro dell’opera, circondato da chiese ed ex palazzi signorili oggi diroccati.

Restano gli scugnizzi indios, scalzi e senza età, gli asini nero pece e i «rappresentanti» del patrono San Francesco d'Assisi. Il magnetismo dell'abbandono tra le vestigia del passato è sinistro e irresistibile. Nel cuore di questa città fantasma c'è l'«Art Café» dov'è girata una scena del film e dove si celebra la ricongiunzione simbolica tra Salvatores e i suoi veri ispiratori, nel pranzo d’addio al Messico. Sono il proprietario Luigi Fantoni «scappato» da Brescia cinque anni fa, Claudio Conti, il «pioniere», nove anni a Puerto Escondido. E Luca, di Catania: «Mi manca una cosa soltanto dell'Italia: vedere quant'è cresciuto in quattro anni il mio fratellino più piccolo».

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Così vinco le mie paure

Prima di «Puerto Escondido», il suo nuovo film tratto dal romanzo di Pino Cacucci (Interno Giallo Editore), Gabriele Salvatores non aveva mai messo piede in Messico. «Il Messico è un mito, il punto di riferimento e fuga nell'immaginario della mia generazione — racconta il regista —. Per me, invece, era un'esperienza vissuta leggendo Castaneda. Prima di fare il regista ho viaggiato pochissimo perché ho molta paura di spostarmi da solo. È paura della solitudine. A 41 anni ho ancora paura di dormire da solo in una casa che non conosco. Pure il buio mi spaventa».

— Da dove nascono queste fobie?
«Sono molto spaventato dalle malattie e dall'idea della morte. Anche se le cose più sporche, poi, finiscono per essere quelle che mi attraggono di più. Credo che dipenda dall'essere nato tra la bambagia e superprotetto in una casa molto borghese. Per crescere devo fare le cose che mi terrorizzano di più. E il cinema mi aiuta a esorcizzare le fobie».

II «peyote»

— Nel film, invece, i personaggi si liberano col «peyote».
«"Peyotel" significa carne degli dei, anche perché al tatto sembra di toccare della carne. Gli indios "huicholes" dicono che mangiandolo entri in comunione con Dio. È un concetto molto simile all’eucarestia».

— E lei, a parte il cinema, cosa usa contro le sue paure?
«Niente. Perché, alla fine, sei sempre solo con te stesso nei momenti difficili. Nasci solo e muori solo. Il cinema è un buon esorcismo, come ogni espressione artistica. Ti fa superare la solitudine, intrattenendo altri e proiettando, insieme, la tua fantasia verso mondi diversi, privi di fantasmi. Magari anche immortalandoti».

— Ha mai pensato di farlo con la paternità?
«L'istinto di paternità non esiste. La donna ha una struttura più completa e solida che le permette di fare un figlio con una persona con cui non è destinata a vivere. Se non ho figli è perché non ho ancora trovato la donna con cui farli. Perché, in fondo, sono anche un po' egoista».

Le donne

— Secondo alcuni il suo universo è soltanto maschile
«Anche quello di Allen, Hitchcock, Kubrick e Bellocchio lo è. Ognuno racconta le cose che conosce meglio e il punto di vista maschile è l’unico che conosco bene. Eppure le donne per me sono veramente l'altra metà del cielo, le amo più del mio mondo. Sono un pianeta da scoprire e se faccio un film su di loro voglio lavorare con una sceneggiatrice in gamba che mi aiuti a capirlo».

Prima di rientare in Italia per il montaggio, Salvatores ha fatto scalo a New York con Abatantuono (che ha girato il film con un dito rotto, visto che il gesso non era nel copione), Giulia e Rita, rispettivamente fidanzata ed ex moglie di Abatantuono (Rita ora è la compagna del regista). Due giorni di tour de force promozionale prima del grande lancio di «Mediterraneo» nelle principali città USA. La Miramax conferma che il film, durante il weekend, ha battuto ogni precedente record d'incasso nella sala newyorchese dove è proiettato.

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