Sullo schermo compare una frase: «In tempi come questi, la fuga è l'unico mezzo che rimane per mantenersi vìvi e continuare a sognare». È di Henri Laborit, tratta dal suo «Elogio della fuga». Siamo nel 1941, infuria la Seconda guerra mondiale. Sul mare di un azzurro intenso scivola veloce la motonave «Garibaldi». In lontananza, appaiono le prime case di un’isoletta greca del mar Egeo. A bordo, un gruppo di uomini sbandati, presi qua e là tra superstiti di eserciti perduti, richiamati, sopravvissuti ad altre battaglie. Sono stati mandati in missione «O.C.» («osservazione e occultamento») sulla sperduta isola di Meghisti (di importanza strategica nulla) per occuparla e segnalare eventuali avvistamenti.
Al comando del tenente Montini (Claudio Bigagli), giovane professore di liceo appassionato di pittura e poesia, ci sono Eliso Strazzabosco (Gigio Alberti), un mulattiere che ha fatto la guerra portandosi dietro l'asina Silvana che tratta come una persona; i fratelli Munaron, Libero (Vasco Mirandola) e Felice (Memo Dini), due montanari che non hanno mai visto prima il mare e non sanno nuotare. Poi, il sergente Nicola Lorusso (Diego Abatantuono), uno smargiasso milanese che ha fatto la campagna d’Africa e si è guadagnato i gradi di sergente maggiore; il marconista Colasanti (Ugo Conti); Corrado Noventa (Claudio Bisio), che ha più volte tentato di disertare per tornare dalla moglie che aspetta un bambino (l’ultima volta, lo hanno riacciuffato al confine tra Albania e Jugoslavia). Infine, l’attendente Antonio Farina (Giuseppe Cederna), giovane alpino della Valtellina.
Tutti hanno più o meno quell’età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo. «Quanto tempo dobbiamo restare qui?», chiede Lorusso. «Quattro mesi», è la risposta del tenente. Agli otto soldati sembra un’eternità. Lo sbarco sull’isola è reso ancor più difficoltoso dalla presenza dell’asina Silvana che Strazzabosco non intende abbandonare. «Lasciala lì, la Grecia esporta asini in tutto il mondo!», gli urla invano Lorusso. La prima cosa che appare ai loro occhi sono le bianche croci di un cimitero, il che solleva un altro commento di Lorusso: «Cominciamo bene!». E su un muro campeggia una scritta minacciosa che il tenente traduce solo in parte. Ma Lorusso insiste per conoscerne l’intero significato. «La Grecia è la tomba degli italiani», traduce il tenente.
Impauriti, i soldati si avviano verso il paese con i fucili spianati. In giro non c’è anima viva, le case sono disabitate, non c’è segno di vita. Disorientati, continuano la perlustrazione. Un piccolo incidente, causato solo da una gallina, provoca la reazione di uno di loro che spara rischiando di ferire Farina. Ci lascia le penne la gallina.
Il drappello trova rifugio in un monastero diroccato. Da lì, con l’unica radio disponibiile, il marconista si mette in contatto con la «Garibaldi». Un messaggio impone loro, da quel momento, il silenzio radio. Gli uomini cercano di sistemarsi alla meglio, attenti al più piccolo rumore. Ma il silenzio è assoluto. I partigiani greci si sono rifugiati in montagna. Nel timore di un agguato, Libero e Felice vengono messi di guardia. Strazzabosco non abbandona mai la sua asina, che si è azzoppata durante lo sbarco. A un tratto si odono gli scoppi delle bombe e improvvisi bagliori appaiono all’orizzonte. La guerra impazza. Un boato e la «Garibaldi» viene affondata. I nostri tentano invano di mettersi in contatto radio ma giunge loro solo un messaggio in inglese che nessuno è in grado di capire. La tensione è al massimo. La parola d’ordine viene richiesta perfino a Lorusso che la ricorda a fatica. Un altro rumore sospetto scatena l’allarme, la parola d’ordine non viene data, si spara. Ne fa le spese l’asina Silvana. Strazzabosco, disperato, afferra la radio e la scaglia lontano mettendola fuori uso. Ora, sono completamente isolati.
L’indomani marciano ancora in perlustrazione, intonando canti fascisti. I Munaron vengono messi di guardia su uno sperone roccioso. Ma non succede niente. Le giornate si susseguono lente e il gruppo perde a poco a poco ogni connotazione militaresca. Il tenente redige il diario militare e si dedica alla pittura. Il marconista s’improvvisa cuoco, Noventa se ne sta in disparte, probabilmente preso da nuovi progetto di fuga. Ognuno cerca di ritrovare la sua dimensione, immerso nei propri pensieri.
In questo luogo stupendo la vita ha ripreso il suo corso, quasi sereno se non fosse per la sgradevole sensazione di essere stati abbandonati. I fratelli munaron incontrano una pastorella (Irene Grazioli) che dà presto un senso alla loro giornata. Lorusso, però, è teso e si chiede spesso: «Ma è meglio essere qua o al centro della battaglia?».
Qualche tempo dopo Farina è di guardia, ma si addormenta. Improvvisamente è svegliato da una torma di ragazzini sbucati non si sa da dove. L’attendente corre a dare l’allarme. I soldati imbracciano il fucile e vanno verso la piazza del paese. Là, dietro una fila di panni stesi al sole, è tornata la vita: anziani, donne e bambini si dedicano alle cose di sempre. Una vecchia indirizza gli italiani verso la chiesa. Qui vengono ricevuti dal pope, il parroco della religione ortodossa, che li accoglie con la frase: «Italiani, greci, una faccia, una razza!». Apprendono così che, prima di loro, sull’isola ci sono stati i tedeschi che hanno distrutto le case, affondato le barche e deportato gli uomini. «Quando abbiamo visto la vostra nave, abbiamo penmsato che fossero tornati e siamo fuggiti. Non ci piacciono gli stranieri sulla nostra terra. Ma conosciamo bene gli italiani e, fra due mali, è meglio il minore!».
Così, grazie al pope, i nostri soldati trovano una sistemazione nella casa del sindaco. Là li attende una visita inaspettata e molto gradita, quella di Vassilissa (Vanna Barba), una giovane e avvenente prostituta che si mette a loro disposizione. Immediatamente, i nostri amici compilano una «tabella di marcia» che, in base al grado di anzianità, assegna a ognuno di loro il turno di visita alla ragazza. Gli incontri con Vassilissa regalano finalmente un po’ di gioia e di intimità a questi uomini abbandonati a se stessi. L’unico a non approfittarne è il timido Farina, che finisce con l’innamorarsi della donna.
Di guerra non si parla più. I soldati si sono ormai adattati alla loro nuova esistenza nella splendida natura dell’isola. Unico divertimento, oltre al sesso, le interminabili partite di calcio con i ragazzini del luogo. Il tenente affresca gratuitamente la chiesa, gli altri imparano a ballare il sirtaki. Noventa scrive sempre alla moglie. Il sergente Lorusso gli dà l’illusione di spedire le lettere ma poi le nasconde in un cassonetto.
Un giorno, durante la solita partita di calcio, un segnale d’allarme lanciato dai Munaron fa scappare gli isolani e mette in guardia i soldati. Un piccolo peschereccio battente bandiera turca si sta avvicinando. Sbarca un giovane che fa subito amicizia con gli italiani. La sera, si riuniscono insieme per fumare l’«erba» che l’uomo distribuisce generosamente. Gli italiani si lasciano trasportare dall’effetto della droga. Ridono a crepapelle e anche Lorusso, che era il più ligio al dovere, si abbandona. Poi, passata la grande euforia, si addormentano pesantemente. Il turco ne approfitta. Al mattino, gli italiani si ritrovano tutti senza orologio e fucile. Sono stati beffati. Furiosi, corrono a chiedere aiuto al pope, che li rassicura e mostra loro il deposito di armi nascosto in un anfratto dell'isola e custodito da un ragazzo in barca.
L’arrivo improvviso di un aereo sconvolge la piccola comunità. È un monoposto italiano. Il pilota porta clamorose notizie. In Italia tutto è cambiato, c'è stato l’8 settembre, gli alleati hanno vinto, Mussolini è stato destituito, gli amici sono diventati nemici e viceversa. Bisogna tornare in Italia, ricostruire, riprendere la propria identità. I soldati sono senza parole. A sua volta, il pilota non riesce a credere che siano lì ormai da tre anni, che siano stati dimenticati da tutti.
Il pilota riparte. Rimane l'incubo che quella vita da sogno stia per finire. «Fra un po’ verranno a prenderci e non ci vedremo più», dice Farina a Vassilissa. Poi, per la prima volta, fanno l'amore. Il marconista, cui toccava il turno di far vìsita alla donna, viene accolto a fucilate dallo stesso Farina. «Nessuno deve più toccare Vassilissa, io la amo!». Il pope li unisce in matrimonio nella chiesetta affrescata dal tenente. Le figure degli affreschi hanno le facce degli otto italiani.
Un giorno, mentre Noventa sta usando per pescare le ormai inutili bombe a mano, vede per la prima volta la barca nascosta nell'anfratto dove ci sono le armi. Se ne impossessa e remando prende il largo verso l'agognata libertà. Anche Lorusso vive un momento difficile: il marconista Colasanti, in vena di confidenze, gli rivela di essersi innamorato di lui. La lontananza da casa e il bisogno d'affetto giocano brutti scherzi.
Ma il giorno tanto atteso e temuto è arrivato: un drappello inglese con una scialuppa viene a prendere gli otto soldati. «Siamo sicuri che adesso sono amici?», si chiede preoccupato Lorusso. L'isola improvvisamente si anima di voci e grida. I partigiani greci tornano dalle loro donne e una nuova vita attende gli otto italiani. Strazzabosco si porta appresso la nuova asina trovata sulla piazza del paese, sotto lo sguardo incredulo degli inglesi. Solo Farina è introvabile. Lorusso lo va a cercare da Vassilissa e lo trova nascosto in un tino per olive. Ha deciso, vuole rimanere sull’isola con sua moglie. Lorusso cerca di convincerlo a seguirlo: «Sta cambiando tutto, dobbiamo rifare l'Italia, è nostro dovere». «Si sono dimenticati di noi, e io voglio dimenticarmi di loro», risponde Farina. E aggiunge: «Rimango qui, dove mi sento vivo per la prima volta. Vassilissa ha bisogno di me, vuole aprire un ristorante». Lorusso parte con i compagni, lasciando Farina al suo destino. «Andiamo a costruire un grande Paese», esclama mentre la scialuppa li porta lontano, salutati dagli isolani.
Passano molti anni. L’isola è diventata una meta turistica, le navi-traghetto scaricano folle di stranieri, in cerca di folclore e, assieme a loro, sbarca un uomo non più giovane, dall'aria stanca. E’ l'ex tenente Montini. È atteso da Farina, ormai vedovo, che gestisce il ristorante «Vassilissa». Ma c'è anche un'altra persona che Montini non si aspettava di incontrare proprio lì: è Lorusso. Il quale, dopo un primo istante di imbarazzo, amareggiato, confessa: «Non si viveva poi così bene in Italia, non ci hanno lasciato cambiare niente. E allora gli ho detto: "Avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice". E sono venuto qui». Sullo Schermo compare un'altra scritta: «Dedicato a tutti quelli che scappano».
«Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa, che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il vento in poppa. La fuga è spesso il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire terre sconosciute che spuntano all’orizzonte dalle acque tornate calme. Rive che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama Desiderio…». Così scrive Henri Laborit nel suo «Elogio della fuga». Un libro che ci ha accompagnato nel nostro viaggio durante questo film, perché «Mediterraneo» è un film sulla fuga, Ma non la fuga intesa come vile rifiuto delle responsabilità, bensì la fuga, per usare un termine desueto, intesa come protesta. La fuga da una situazione che non ti piace e nella quale non riesci a trovare un tuo luogo, verso un luogo nuovo dove costruire una realtà migliore. Non occorre trovare isole deserte: si può «fuggire» anche all’interno della propria coscienza, lontano dalla volgarità e dalla superficialità di questi anni. La mia generazione è «fuggita» molte volte durante la sua storia, in vari modi, a volte disastrosi, a volte meravigliosi… Gli otto soldati protagonisti di «Mediterraneo» «fuggono» dalla guerra, ma anche e soprattutto da una società nei cui valori non si riconoscono. La «troupe» è «fuggita» dall’Italia dei Mondiali di calcio per rifugiarsi in una piccola isola greca dell’Egeo davanti alla Turchia. Su quest’isola c’è un cartello con scritto: «Qui comincia l’Europa». E’ un’isola molto lontana, piccola, bella e, quindi, scomoda. Un solo albergo con poche stanze, case di pescatori semidiroccate, niente strade, niente discoteche, niente comodità. Immaginatevi una troupe di 45 persone con 35-40 gradi all’ombra per due mesi in un’isola così!
Nei primi giorni di lavorazione abbiamo avuto diverse crisi:
l’isolamento, il vento caldo, la scomodità, il sentirsi così
lontani da casa. Poi al disagio e allo scoraggiamento è subentrata una
specie di malinconia, una nostalgia di casa, ma anche un lento e caldo
senso di abbandono. Una perdita della dimensione del tempo, un
rallentarsi dolce del ritmo cardiaco, un respiro più ampio. E poi una
sensazione di libertà e di pulizia, di essenzialità e di profondità
nei nostri pensieri, un lasciarsi andare ai ritmi naturali del mare,
del sole e della luna, del vento caldo dell’Egeo. Così, giorno
dopo giorno, gli otto interpreti hanno vissuto le stesse sensazioni
dei loro personaggi. Ed è esattamente quello che volevo e per cui con
Gianni Minervini, il produttore, abbiamo fermamente voluto girare in
un’isola molto, molto lontana. E anche questo è un modo di
«fuggire» da un modo tradizionale di fare cinema.
Gabriele Salvatores