Cronaca d’un addio vissuto “a fior di pelle”

Il secondo film del milanese Gianluca Fumagalli

Testata
la Repubblica
Data
19 marzo 1987
Firma
Paolo Mereghetti
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Per fare un grande film bastano un uomo, una donna e un'automobile. Parola di Godard. E Gianluca Fumagalli, regista milanese al suo secondo lungometraggio, si schiera con decisione per questa estetica dell’economia: "Nel mio film non c'e nemmeno l’auto. Mi sono fermato alle due ruote, alla motocicletta" dice ridendo: Trentun anni, una foresta di riccioli castani che crescono con l'età, Fumagalli sarà l’unico regista italiano in gara al festival' più cinefilo d’Italia, quello di Salsomaggiore. E questo e già un titolo di merito non da poco, perché A fior di pelle, il suo secondo film, è stato prodotto forse più con i debiti personali che con le sovvenzioni governative dell'articolo 28. "Sono stato ad un solo passo dal salto di qualità; c’era anche l’okay di Ben Gazzara, ma quando tutto sembrava fatto l'Istituto Luce si è tirato indietro. E con lui sono svaniti i milioni che servivano per produrre un film di categoria superiore" racconta.

Ma il tono non è mai di chi si lamenta. Anzi, adesso che il film sta per essere presentato in maniera ufficiale, si capisce che l'esperienza di aver fatto ancora un'opera “che serve fondamentalmente a rendere più facile la prossima" è stata decisamente positiva. "A lavorare senza rete si impara. Forse più in fretta che in qualsiasi altro modo". Diversamente da quei registi ai quali un'affinità generazionale e geografica aveva appiccicato etichette vuote di contenuti (film-maker milanesi, la categoria più chiacchierata ma anche più indefinita del cinema italiano), Gianluca Fumagalli insegue una sua strada personalissima e solitaria. Quattro anni fa, la sua opera prima Come dire... aveva fatto sprecare più di un complimento. E a ragione, perché fra i tanti esordi giovanili, il suo film era di gran lunga il più sicuro, il più compatto, il più film.

Tra i suoi supporter, in prima fila, c'era anche Nanni Moretti. "Ma a me, quel successo ha scatenato una profondissima crisi" rivela Fumagalli. "Non capivo più cosa volevo fare. E soprattutto mi sembrava di inseguire problemi formali, quando invece le mie ossessioni più profonde, e a quel tempo più segrete anche a me stesso, erano di altro tipo".

A sentirlo parlare, si capisce che c’è una gran differenza tra lui e certi giovani registi tutti pieni di sicurezze e supponenze. Forse è la concretezza della pubblicità, a cui Fumagalli si è adattato per esigenze alimentari, ma da cui ammette di aver succhiato mestiere ed esperienza; forse un’innata timidezza che qualche volta lo fa scambiare per scontroso, comunque non sproloquia solo di carrelli e movimenti di macchina. “I cineasti per cui mi sono preso delle cotte mi hanno insegnato che al cinema contano solo i sentimenti e la capacità di esprimerli con il massimo della semplicità e dell'economia di mezzi. Non giro mai delle inquadrature belle in sé" dice con una punta di orgoglio. E il sentimento che lo tormenta di più, dentro e fuori la sua vita da cineasta, è quello che nasce tra un uomo e una donna. Ogni incontro nasconde un abbandono. E’ questa l’ossessione che mi trascino dentro e che nel mio primo film era trattata solo in maniera superficiale. E A fior di pelle l’affronta di petto".

La storia del film è semplicissima: una ragazza (interpretata da Mariella Valentini) scopre che anche le storie che credeva indistruttibili finiscono. E vive sulla sua pelle questo nuovo, angoscioso senso di libertà. “Non è una storia piena di colpi di scena o di avventure picaresche. Anzi, nella seconda parte del film ci sono solo un uomo e una donna in un campo deserto. Non hanno neanche un nome, così come gli altri personaggi del film, ma spero che tutti gli spettatori li trovino dentro loro stessi “.

Le ossessioni stilistiche si dissolvono irrimediabilmente e lasciano il campo ad un cinema più concreto ma anche più universale.

"Io ho impiegato due anni a scrivere questo film, e lavoravo con due sceneggiatori, Edoardo Erba e Roberto Traverso. Ma quando l’ho finito mi sono sentito come alla fine di una cura psicanalitica. Se il mio spettatore non ne avrà bisogno, spero almeno che ne capisca il senso".

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