"Grande è il caos nell’universo", sentenziava il filosofo-presidente cinese. "E anche qui a Milano c'è un bei casino!" continua paolo Rossi, facchino alla Centrale, sfigato per profonda e irresistibile vocazione. Un perdente, come quel cavallo di nome Kamikaze da cui prende spunto e il titolo Kamikazen, il secondo film di Gabriele Salvatores che esce, curiosamente, proprio mentre il Teatro dell'Elfo riallestisce quel "Sogno” che egli anni fa aveva diretto sullo stesso palcoscenico e trasformato poi nel suo primo film. Allora era una produzione milanese con soldi Rai. Ora è un'altra produzione milanese, la Colorado Film, con soldi Reteitalia. La Colorado è una nuova società cinematografica formata dallo stesso Salvatores, da Maurizio Totti, Paolo Rossi e Diego Abatantuono.E questi appare nella prima scena del film, come a far gli auguri a tutti. "Sei proprio un pirla" dice al Corallo (Flavio Bonacci) che ha appena buttato via un milione scommettendolo su quel cavallo di cui si diceva. Ma anche il Corallo l'è minga un pirla. Dato che di mestiere fa l'agente teatrale (comici e attrazioni per serate in provincia, roba che in confronto il Danny Rose cantato da Woody Allen era il padrone di Brooklyn), cosa fa il Corallo? Chiama sei dei suoi artisti: un portabagagli, un gestore di sala-giochi, uno scaricatore dei mercati generali una coppia cuoco-cameriere, tutta gente che arrotonda con qualche esibizione comica e aspetta la grande occasione, e gliela spara grossa: c'è una fantastica serata tutta per loro e ad ascoltarli ci sarà nientemeno che un inviato di Drive In. Naturalmente per un’occasione del genere bisogna pagare qualcosa, diciamo centomila a testa. E con le cinquecentomila che prenderà dal padrone del locale e che si guarderà bene dal distribuire ai ragazzi il Corallo avrà ripianato il deficit dell'azienda. Ma anche lui avrà poi la sua sorpresa.
Attendendo la sorpresa e l’esito dell'audizione possiamo seguire i nostri sei comici-kamikaze. Deve passare solo una giornata ma il momento fatale non arriva mai, a un certo punto si dubita persino che Salvatores voglia farcelo vedere. Forse è più interessante vedere cosa succede a sei personaggi così in (sottotitolo) una notte a Milano. Una notte d'estate, col caldo. I gradi, trenta e anche più, appaiono di tanto in tanto sullo schermo, in basso a destra, come il marchio di una rete televisiva, forse per esorcizzare quello che prima o poi inevitabilmente colpirà anche questo film.
Prima di fare il loro numero sul palcoscenico i sei dovranno fare i loro soliti numeri nella vita, non sempre comici anche se si ride spesso, a volte patetici, grotteschi, magari un po' tragici. Bisogna citarli tutti, i sei. Oltre a Paolo Rossi, che con la complicità della regia si prende un po' più spazio degli altri, ci sono Claudio Bisio, Silvio Orlando, Alberto Storti e Renato Sarti, Antonio Catania. E a loro si aggiungono David Riondino, Gigio Alberti, Nanni Svampa, Maria Luisa Santella e altri ancora. No, non è Drive In, anche se sono tutte facce che abbiamo visto, magari senza ricordarne i nomi. E’ il giovane teatro (e cinema) milanese, è in gran parte la compagnia deÌl'Elfo, è la troupe di Comedians, il fortunato spettacolo che Salvatores ha messo in scena due anni fa e a cui (anche se non bisogna dirlo) è ispirato il film. Non bisogna dirlo perché forse il vero Comedians sarà fatto a Hollywood e perché effettivamente ormai quasi tutto è cambiato, come lo stesso Griffiths ammette benedicendo la nuova operazione.
"L'ambientazione chiusa e teatrale del testo mi aveva portato in un vicolo cieco — spiega Salvatores — e così ho chiesto a Enzo Monteleone di riscrivermi una storia nuova, che si basasse sul fatto che tutti gli attori avevano fatto del cabaret o spettacoli comici di serie B".
In ogni caso in un film del genere interessa poco la base scritta e interessa di più la performance collettiva, il ritratto di gruppo. Salvatores generosamente si è tirato indietro, ha lasciato ai suoi attori tutta la scena e quasi tutto il film. Spesso hanno improvvisato insieme. "Giravamo sempre con due cineprese perché nulla andasse perso e i dialoghi fossero autentici, con dei veri controcampi. E purtroppo anche il caldo era vero". C'è effettivamente molta verità nel film, non quella di un codificato "realismo" ma quella di un mondo e di ambienti che il cinema da tempo non ci faceva vedere: una Milano di serie B. scale scrostate, sale-giochi senza troppi colori, atri notturni della Centrale e locali di periferia. Niente yuppies vanziniani e bambini olmiani ma personaggi, come quello di Paolo Rossi, che hanno il coraggio della propria diversità e della propria storia. Un Drive In in esterni senza frenesia, senza lustrini e senza tette. Un film molto "milanese" in questo: che sembra fatto non per sfondare ma per durare.
Per tutta quella notte i barboni della stazione Centrale hanno guardato Salvatores come la mucca guarda il treno. Anche il treno ha guardato Salvatores e naturalmente lo ha fatto da treno, pensandolo una mucca. E forse Gabriele Salvatores in quel preciso momento si credeva una mucca per davvero. Note del 22 giugno: primo ciak di Kamikazen. Tutti, a dirla precisa, ci siamo creduti mucche, mucche volanti, marziani, entità indefinibili, come potrebbe succedere a un turnista dell’Alfa se un giorno gli si presentasse Kim Basinger e gli dicesse: "Ti sposo". Uguale a noi, appunto, dato che nessuno avrebbe pensato di ottenere uno straccio di credito per poter girare un film fatto da milanesi a Milano. E non per lo sbandierato odio di Roma nei confronti di Milano: che non di odio si tratta ma di una sorta di atavica abulia, così che se c'è da scegliere tra il già fatto e il da farsi a Roma scelgono sempre il già fatto, cioè Cinecittà. Fatto è che noi eravamo lì. alla Centrale, a fare un film vero, con una pellicola vera, alla faccia di tutto e di tutti non per rivincita, per giustizia della sorte, forse.
Che si trattava di una cosa fuori dall'ordinario, quel primo ciak, lo si capiva dal comportamento dei barboni, da quelle loro reazioni inebetite davanti all'andirivieni della troupe, ai fumi, alle pozzanghere create ad hoc per gli effetti-luce. Non capivano, i barboni. Non si capacitavano di tutto quel casino, loro che alla stazione avevano visto al massimo un operatore di Raitre Regione. Fatto è che scambiarono Sergio Staino e Molotov — comparse di lusso e in pura amicizia — per due di loro e cercarono di dividerli quando, sporchi e logori per esigenze di copione, iniziarono davanti alla cinepresa a scazzottarsi di brutto. Quello fu comunque il segnale: tutto incominciò a filare nella normalità dell'imprevisto, come ogni film che si rispetti. Le battute si modificavano sui copioni, i polli sparivano dai cestini, i marocchini bivaccavano tra i curiosi e Paolo Rossi li manteneva in vita comprandogli cassette di Sting che immancabilmente restavano mute dopo la prima canzone. Paolo se le sparava nelle orecchie col walkie durante le pause e c'è da giurare che non si è mai accorto del trucco. A Gino intanto viene concessa la parte di un fuori di testa, un altro barbone, uno che si crede Versace, lo stilista. La parte gli riesce cosi bene (quella del barbone) che viene allontanato dal set dalla Polfer. Poi, quando dalla discussione che ne segue salta fuori il nome di Versace, l'agente gli chiede un autografo e lo schizzo di una giacca per il matrimonio della sorella.
Ma torniamo alle cose serie. Salvatores, che nelle pause aveva ripreso a giocare a pallone dopo 25 anni, saltellava ormai come una gazzella da un binario all'altro, da un cesso all'altro (bisognava girare una scena anche lì), da un'edicola a una scala mobile. Riondino scriveva poesie romboidali che spediva a Tango direttamente dalla cassetta delle lettere della stazione. "Così arriva prima", bofonchiava infilando la busta direttamente nei cestini dell'Amnu. L'avesse saputo l'addetto ai cestini dei rifiuti, avremmo un poeta in più. Purtroppo invece le poesie andarono perse e David ci rimase così male che ci scrisse sopra un'altra poesia, questa volta a forma di cinepresa; ma non ebbe mai il coraggio di leggerla.
Le scene della stazione finirono al Diurno. Paolo Rossi e Laura Ferrari consumarono una specie d'amplesso. Salvatores fece anche lui l’attore, ritagliandosi una parte di maniaco sessuale. Noi facevamo le facce dietro la cinepresa per farli ridere. Ma era inutile: tutti si sforzavano di essere più credibili possibile.
Poi vennero gli altri, quelli che erano stati i Comedians in teatro. Gianni Palladino, Bebo Storti e Renato Sarti si studiavano tra i tavoli di una famosa trattoria di via Orti, travestita da Latteria. Preparavano risi e bisi per tutti, ma Silvio Orlando, da buon napoletano, preferì cenare con Claudio Bisio e Maria Luisa Santella in una casa-set di piazza Borromeo. Antonio Catania imparò a giocare a ping pong nelle lunghe pause tra una scena e l'altra, in una sala giochi di porta Ticinese. Gigio Alberti pianse d'amore in un loft davanti al Naviglio. Nessuno ha mai capito se piangesse davvero, perché e per chi, ma piangeva e questo era ciò che interessava al copione. Flavio Bonacci, Mara Venier e Nanni Svampa vennero sepolti vivi in un Night di piazza Diaz o giù di li. Nel Night Salvatores girò tutti i numeri dei comici. Era tanta la voglia di essere immortalato sulla fatidica pellicola che Michele accettò la parte di un insopportabile avventore. "Il Night non è il mio ambiente", diceva nelle pause. Ma qualcuno giura di averlo visto sottrarre un paio di foto di anziane spogliarelliste dai camerini. Sei settimane così. Si girava di notte, spesso. O di giorno, ma di notte non si dormiva comunque. Il film continuava — è banale? — nella vita: una partita a Subuteo a casa di qualcuno e poi allo Zelig a bersi una birra e a guardarsi bere una birra, come fanno i grandi di Hollywood. O di Roma, magari. Ci sarebbe da scrivere un film su come noi, un gruppo di amici, tra un torneo di calcio e una partita a flipper, siamo riusciti a fare questo film...