C’erano stati i “milanesi” degli anni Sessanta: Jannacci, Cochi e Renato, Valdi, Andreasi, i Gufi… Venivano dal cabaret, raggiunsero quasi tutti una buona notorietà, provarono quasi tutti a fare qualche film ma quasi nessuno, nel cinema, ebbe fortuna. La commedia italiana di quegli anni non era fatta per loro e per la loro non-tipicità.
Ora un’altra generazione si fa avanti: vengono dal teatro o dal cabaret di massa, un po’ di cinema lo hanno già fatto (parti marginali di film importanti o parti importanti di film marginali) e adesso hanno anche il loro ritratto di gruppo, la loro “carte de visite” collettiva.
Si intitola Kamikazen ed è un film diretto dal regista teatrale Gabriele Salvatores e prodotto (con finanziamenti Reteitalia) da una nuova società di cui fa parte anche Diego Abatantuono. Il quale appare in un cameo augurale nella prima scena, dice tre volte la sua unica battuta e poi si ritira per far largo ai giovani. Che sono Paolo Rossi (facchino alla stazione, turno di notte e guai a tempo pieno), David Riondino (carrettino panini e bibite, ma con lo “sgurz”), Flavio Bonacci (impresario alla Danny Rose, anzi peggio), Silvio Orlando (gestore di salagiochi, più flipper che videogame), Claudio Bisio (scaricatore ai mercati generali con amante fruttivendola del centro), Antonio Catania (emigrato permanente), Alberto Storti e Renato Sarti (cuoco e cameriere genere “espressi al pomodoro e milano con patate”) e poi ancora Gigio Alberti, Gianni Palladino, Laura Ferrari e altri.
Sono bravi, determinati, capaci di fare la presa diretta, non necessariamente milanesi etichettati, non forzatamente simili fra loro. Ma molti hanno lavorato insieme in uno spettacolo che è un po’ la matrice di questo film, Comedians di Trevor Griffiths messo in scena due anni fa dallo stesso Salvatores. Titolo, trama e copyright si sono poi persi per strada, sostituiti dalla sceneggiatura di Enzo Monteleone e dai dialoghi di Gino e Michele, ma è rimasta l’idea di raccontare le vicende di un gruppo di comici in attesa di un’audizione forse determinante per la loro carriera.
Qui, ad esorcizzare lo spettro della Tv che paga e forse della rete su cui si è destinati a finire, si immagina che la grande occasione sia costituita da un’audizione per “Drive In”, ma in realtà tutto è ancora più basso e squallido perché si tratta solo di una fregatura che un impresario di quart’ordine cerca di tirare a dei poveri cabarettisti semidilettanti.
Una trama che sembra un pretesto e lo è, non solo perché serve essenzialmente da contenitore per i numeri (sulla scena e nella vita) dei diversi attori-personaggi, ma anche perché è continuamente elusa o abbandonata da una regia a cui interessano più certe divagazioni ambientali o certe riflessioni a ruota libera sui tempi che corrono. Tempi e luoghi che non sono quelli della Milano rampante e vanziniana, per i quali verrebbe voglia invece di usare una parola vecchia e démodée: neorealistici.
Scale e ringhiere, bar e autogrill, periferie e biliardi di una città che evidentemente non è tutta immagine e “stile”. Ma anche Salvatores non vuole avere o imporre uno stile cinematografico personale (a differenza che nel suo primo film, un Sogno di una notte di mezza estate tutto musica e colori e costumi) e con generosità e intelligenza si tira indietro per lasciare piena libertà d’azione ai suoi “comedians”.
Ne esce non un grande film ma un soggetto simpatico, divertente e da “portare” a lungo: in molte biografie di attori un giorno, speriamo, famosi si ricorderà che avevano cominciato con un film chiamato Kamikazen.