“Kamikazen”, “Ultima notte a Milano”, è il film del copyright lombardo anni ’80, scritto, pensato, diretto, gestito, prodotto – con lo zampino di Abatantuono – e promosso all’ombra della Madonnina. Ma le avventure molto pittoresche di alcuni sedicenti comici che sono convocati da un truffaldino impresario a una serata d’onore con l’illusione che in platea ci sia un’emissaria di “Drive In” col contratto nella borsetta, si svolgono molto lontane da piazza del Duomo.
La nuova milanesità, tutta in notturno, è quella degli “sfigati”, del degrado metropolitano, della Stazione Centrale, di Paolo Rossi e della filosofia dello “sgurz”. Tutte notizie di ascendenza teatrale, ereditate dal Teatro dell’Elfo dove un abile testo dell’inglese Trevor Griffiths, “Comedians”, ha dato l’idea a Gabriele Salvatores, e al suo cosceneggiatore Enzo Monteleone, di questo film visivamente seducente ma stereotipato proprio nei dialoghi affidati ai brillanti Gino e Michele.
Annuncia l’autore, alla sua seconda prova dopo il curioso “Sogno” scespiriano, che “Kamikazen” è un film su chi vuole correre in fretta verso il successo e chi invece preferisce vivere, e magari giocare.
Come appunto il Paolo Rossi, facchino alla stazione, che chiude la agra morale della bislacca storia. Gli altri sono occupati in emarginazione quotidiana vera o presunta: chi fa il fotografo, chi il cameriere, chi ha la sala giochi, chi scarica al mercato o adotta l’arte di arrangiarsi a tempo pieno.
Sono sei comici di serie C, che attenderanno per sempre la grande occasione, ma vivono comunque le più ecitanti 24 ore della loro vita in attesa dell’esibizione, coinvolti anche in qualche sballata disavventura sentimentale, in cui si intromette, in zona sado-maso, anche lo stesso Salvatores.
Chiaro che è stata una burla, ma, guarda te, c’è davvero la “manager” del “Berlusca”: cosicché è chiaro che dal nostro neo-irrealismo quotidiano può sempre nascere un miracolino a Milano.
Tutto giocato sull’illusione-delusione, “Kamikazen” è un film che parla come mangia, è un piccolo e curioso sommario di filosofia alla milanese, ben fotografata “by night” da Fernando Ciangola ed emotivamente promossa dalla “giusta” colonna sonora di Fred Bongusto.
Ma nonostante la bravura e la simpatia di molti di questi giovani, a cominciare dal mattatore Paolo Rossi (che dando di sé la vera immagine si riscatta dai film dei Vanzina), per continuare all’esilarante napoletano Silvio Orlando, e senza dimenticare la partecipazione del tuttofare David Riondino, il film offre esattamente quello che ci si aspetta, senza scatti, senza rincorse, senza guglie: in poche parole, non si alza granché.
Più che a Salvatores, che conosce alcune regole del cinema, e si diverte, divertendo anche noi col montaggio, le manchevolezze proprio sono nella storia, in certa confusione espressiva che non diventa stile, ma resta confusione.
Alcuni personaggi sono di troppo, altri scompaiono, altri porgono l’altra guancia del facile sentimentalismo, ancora con la vagabonda prostituta di cuore tenero. Alla fine, tutti sulla “chorus line”, e ciascuno col suo numero, in evidente posizione di starter teatrale.
La fatica di essere comici, e nello stesso tempo di sopravvivere tutti i giorni, è affidata agli estri di una compagnia affiatata in cui citiamo ancora Flavio Bonacci, Antonio Catania, la Santella, Svampa, Claudio Bisio e Mara Venier, che “tirano mattina” – proprio come insegnava Umberto Simonetta – cercando di confidarci qualche fatica esistenziale dietro la psicanalisi della risata.